Sì, sì, marmellata!!! Non confettura, o composta, o conserva: rivendico il diritto di chiamare le mie mescolanze di frutta e zucchero un po’ come mi pare! Leggevo proprio ieri, nei commenti di un post del Bressanini che tutti conoscete una discussione sul motivo per il quale per legge, dal 1982, si può chiamare marmellata solo quella fatta con gli agrumi; tutte le altre sono confetture (“extra” se contengono frutta oltre una certa percentuale).

marmellata di more fatta in casa

Pare che l’Artusi la marmellata la chiamasse marmellata, tranne se comprendeva così poco zucchero da doversi consumare come dolce, quindi non fosse conservabile per lungo tempo. In realtà credo che la denominazione attuale derivi dall’uso inglese (come tutti sanno lì viene chiamata marmalade solo quella di arance, tutte le altre sono jam), anche se alcuni commentatori di Dario fanno derivare la parola confettura dal termine confiture, che in Francia indica qualsivoglia tipo di conserva.

Ad onor del vero si mormora che la prima marmellata non sia creazione né inglese né francese, bensì della moglie – sempre delle donne le invenzioni geniali… ehhhh – di un commerciante di Aberdeen (Scozia) che dovette trovare il modo di non lasciar marcire un carico di arance di Siviglia rimaste invendute.

Io preferisco la parola marmellata e visto che non ne faccio commercio, tutte le conserve che includano frutta con zucchero da spalmare sul pane e burro al mattino le chiamerò così :-)

Ma non è questo ciò che volevo sottolineare, bensì altre due cose ben più importanti, che riguardano:
a) la minima quantità di zucchero che si può mettere in una *marmellata* perché la frutta non marcisca (“lo zucchero serve proprio a far aumentare la pressione osmotica e far avvizzire i microrganismi”, cito da uno dei commenti dell’articolo di cui sopra);
b) l’addensante da scegliere, in questo caso l’agar-agar, che come molte di noi avevo lasciato nel cassetto dopo un paio di tentativi andati male (tipo un mattone di paté di carciofi che avrei potuto usare come fermacarte, tanto sarebbe rimasto mummificato per un secolo).

Parliamo dello zucchero. Lungi da me sostenere che non mi piacciono i cibi dolci, figuriamoci, li adoro. Però nella marmellata per me si deve sentire il sapore della frutta, per cui voglio usare meno qualsiasi altra cosa possibile. In un vecchio numero di Valore Alimentare (risorsa preziosa, quella rivista) lessi la risposta di Enrico Zagnoli alla domanda di un lettore, e non l’ho mai più dimenticata. In sostanza questo signore, che aveva una piccola azienda di confetture (sic!) biologiche voleva sapere quanto zucchero di canna bisognava usare.

Zagnoli sosteneva che (a parte gli agrumi, che cotti sono molto amari) se la frutta è molto matura, e quindi contiene molto fruttosio, si potrebbe teoricamente conservarla anche senza alcuna aggiunta (sterilizzandola in barattoli di vetro – anche riciclati – con capsule ermetiche *nuove*). La quantità ottimale di zucchero la indicava comunque in 330 grammi (di zucchero di canna) per chilo di frutta (nel caso in questione prugne). Se la frutta fosse stata “molto matura e imperfetta” consigliava di sostituire un decimo dello zucchero di canna con miele, che prolunga la conservazione.

marmellata di more fatta in casa

Spiegava che in questo modo lui conservava le confetture fino a tre anni senza bisogno di sterilizzare i vasetti e senza “rischio microbiologico” (formazione di aloni, anelli batterici e colonie fungine sotto il coperchio). Per quanto riguarda l’addensante la scelta è varia.

Preferisco una marmellata senza alcun tipo di stratagemma, cioè solo frutta e zucchero, ma in questo caso ci vuole una lunga cottura a bassa temperatura (io la preferisco) o una meno lunga a temperatura più alta e un essere adulto munito di cucchiaio di legno e posizionato accanto alla pentola, fino a totale addensamento. Controindicazioni: la frutta perde sapore per la lunga cottura, e scurisce, anche perché lo zucchero tende a caramellare; inoltre più cuoce più perde le sue proprietà nutritive.

Ci sarebbe il metodo Ferber (vedi cavoletto); si mescola la frutta con uguale quantità di zucchero, si mette tutto in una pentola, si fa arrivare all’ebollizione, si spegne, si lascia raffreddare, si fa riposare tutta la notte in frigo, il giorno dopo si riporta a ebollizione, si lascia cuocere a fuoco basso per un quarto d’ora e si invasa. Controindicazioni: la quantità di zucchero.

Si può ricorrere alla pectina. Ma che sia biologica, perché quella convenzionale viene estratta dalle bucce delle mele e degli agrumi non biologici: un cocktail di pesticidi al benzimidazolo cancerogeno (parole di Zagnoli). Con lo 0,8% di pectina *naturale* e con l’8% di miele è possibile fare completamente a meno dello zucchero.

La pectina però ce la possiamo fare anche da soli, aggiungendo alla frutta della marmellata una mela cotogna affettata, o bucce e torsoli di mele normali racchiusi in un sacchetto.

Poi c’è l’agar agar (anche detto kanten), che ho voluto provare in questo caso; un cucchiaino per chilo di frutta e via. Si trova biologico, è naturale, è semplice da conservare e inodore, però devo ammettere che non amo l’idea di usare alghe e frutta insieme. Sono due cose troppo diverse. Inoltre secondo me un po’ di sapore di alga si sente.

Per la storia, i confronti con la gelatina animale, utilizzi vari e spiegazioni vi rimando da Sigrid e da Dario, che a suo tempo ci hanno fatto un post in joint venture; non per altro, ma altrimenti questo post mi diventa enciclopedico (che a me piacerebbe, ma voi mi crollereste con la testa sulla tastiera).

Ingredienti:
1 chilo e 200 grammi di more
350 grammi di zucchero grezzo chiaro
1 limone
1 cucchiaino di agar agar in polvere

Per prima cosa raccogliete le more. Se dalle vostre parti non ce ne sono, sappiate che da queste parti al momento c’è l’apoteosi della mora selvatica, che però dura solo una decina di giorni Lavatele bene le more (subito prima di utilizzarle o asciugatele molto bene altrimenti muffiscono in poche ore).

Passatele con il passaverdure (buchi medio-piccoli) in modo da togliere la maggior parte dei semini; se questinon vi dànno fastidio potete anche tralasciare questo passaggio, che richiede una buona dose di pazienza. Con un chilo e duecento grammi dovreste ottenere circa un chilo di purea di more.

Aggiungete lo zucchero e il succo del limone, mescolate bene, coprite e lasciate riposare (io ho aspettato tutta la notte, ma va bene anche un’oretta). Trascorso il riposo, mettete tutto in una pentola di acciaio bella pesante, e posizionate sul fuoco al minimo della fiamma.

Quando arriva a ebollizione aggiungete un cucchiaino di agar agar, cercando di distribuirlo su tutta la superficie, e mescolate molto (molto) bene con un cucchiaio di legno. Aspettate un minuto, spegnete e versate subito in vasetti (io uso quelli piccoli da 250 grammi) precedentemente sterilizzati (o lavati in lavastoviglie ad alta temperatura). Chiudete con capsule nuove (e sterilizzate pure loro) e capovolgete fino a quando non si saranno completamente raffreddati.

A questo punto se volete conservare la marmellata per lungo tempo mettete i vasetti più o meno avvolti in uno strofinaccio da cucina (per evitare che si rompano urtando tra loro durante l’ebollizione) in una pentola grande, aggiungete acqua e un po’ di aceto (serve per evitare che i vasetti si ricoprano di calcare – se abitate in Alto Adige – beati voi – potete evitare l’aceto), fino a coprire i vasetti di un paio di centimetri e mettete sul fuoco a fiamma media. Calcolate una ventina di minuti dall’ebollizione, poi spegnete, e coprite fino a raffreddamento.

Ecco fatto. Colazione a base di burro e marmellata assicurata per l’inverno!