Come vi ho accennato qualche post fa, durante le vacanze di Natale sono stata nella mia città natìa; non mi sono trattenuta tanto, e quindi ho potuto girare solo in un paio di quartieri, ma devo dire con mia grande gioia che in generale ho trovato la mia Napoli molto più bella, pulita e ordinata di quando ci vivevo, una ventina di anni fa.
So che ci sono ancora molte zone disastrate, soprattutto in periferia, e spero verranno presto riportate agli antichi splendori; io sono riuscita a vedere solo il Vomero, via Toledo (il vecchio nome di via Roma, che grazie al cielo adesso è tornato in essere) e la zona di Piazza del Gesù: sono diventate quasi completamente pedonali, e molte chiese e monumenti chiusi da sempre adesso sono miracolosamente aperti <3
Era molto che non ci tornavo, e devo dire che mi sono veramente commossa nel vedere i luoghi della mia infanzia (e adolescenza!) riportati in vita; quant’è diversa una città senza traffico, e quanto è importante per una realtà urbana come quella di Napoli, fatta di stradine tortuose che improvvisamente si aprono alla luce in piazze spettacolari, essere spogliata dalle macchine e dalle puzze e dai rumori che ne conseguono.
Potrei dilungarmi per un secolo su questo argomento, ma mi autoriporto all’ordine perché in questo articolo devo proprio mostrarvi un posto molto speciale che ho conosciuto grazie al mio fratellino.
Il suddetto ragazzo (o quasi) è riuscito infatti a scovare un ristorante al Vomero, a due passi da casa sua oltretutto, che mi ha fatto un’ottima impressione, in particolar modo per come le pietanze sono state cucinate e presentate, ma anche per l’educazione e la disponibilità in sala, il fatto che ci fossero tipo tre o quattro tavoli in tutto, l’atmosfera pacata e tranquilla, la buona musica (a volume perfetto, né troppo alto né troppo basso), e dulcis in fundo la grande attenzione per le materie prime.
Devo confessarvi che quando sono stata giù ho fatto qualche (piccola!) eccezione al cibo totalmente naturale, e quando dico piccola intendo poca roba. Siamo stati al Sorriso Integrale, dove erano tutti molto gentili e il cibo era certificato bio, ma la cucina sinceramente era un po’ da mensa aziendale, per dirla tutta. Ho visitato anche un altro paio di posti, ma non ho avuto tempo di approfondire per cui ve ne parlerò appena riuscirò a farlo.
Da Sartù appena entri ti trovi davanti un tavolo pieno di libri di cucina napoletana e non solo (e già questo lo trovo rincuorante). Il menù l’ho trovato rassicurante per una come me; tanto per dirne una, si apre con un’auto-presentazione che non può non piacere a chi ama un certo tipo di cultura del cibo: “La nostra è una cucina fortemente legata al territorio e alla stagionalità” (…) ci piace pensare a una *tradizione in movimento*, ed è con questo spirito che pensiamo il nostro menù” e poi “Il Sartù ha il proprio orto situato sulle pendici fertili del vulcano spento di Roccamonfina, immerso tra i noccioleti e i castagneti secolari, e detta i tempi del menù.”
In cucina per alcune cose (pochissime, in verità) ancora si affidano al convenzionale, e piccola pecca, manca quasi del tutto la conoscenza del vino naturale, ma il vino, anche se convenzionale, è scelto con cura. Per il resto ho avuto veramente poco da obiettare (e conoscendomi capite bene che insomma ci potete andare a occhi chiusi :-D).
Adesso, sarà che il suddetto orto naturale si trova in una zona dell’alto casertano, tra i 200 e i 700 metri di altezza, sarà che la carne nel caso del maiale proviene da neri casertani bradi e in quella del pollo dalle galline paesane degli agricoltori nei loro immediati dintorni (in quella zona esistono ancora le macellerie che vendono la carne di animali che pascolano dietro il negozio), sarà che conosco bene (per averlo osservato spesso, ormai) lo sforzo importante che un ristoratore deve fare per rifornirsi dai piccoli produttori invece che dalla distribuzione convenzionale (o anche da quella biologica) che gli porta la pappa pronta, puntuale e precisa, con tutti i necessari compromessi del caso, per tutti questi e altri motivi insomma mi sento di consigliarvi vivamente una visita a questo ristorante così coraggioso.
Carlo Capuano ha deciso di aprire solo un paio di anni fa, ma mi pare che in questo lasso di tempo abbia già acquisito una notevole esperienza. Mi ha raccontato che il suo intento è stato principalmente di coniugare le sue due passioni: la musica, jazz e classica soprattutto, e la fissazione per le cose buone, come il suo orto, dal quale provengono tutte le verdure che utilizza nella sua cucina, e gli altri magnifici alimenti che si trovano ancora nella campagna nella quale è nato e cresciuto.
Oltre al cibo di provenienza paesana e naturale, altre caratteristiche peculiari del suo locale sono l’assenza di wi-fi e televisione, e – cosa insolita a Napoli – niente servizio e coperto (che nella zona di solito ammontano rispettivamente al 15% del conto e a 3 euro a persona), perché, parole sue “servizio e coperto non si mangiano e quindi non si pagano”. Adesso vi racconto più approfonditamente cosa abbiamo mangiato noi: i piatti spiegano ciò che voglio dire più di mille parole.
Ovviamente non abbiamo potuto esimerci dal provare per prima cosa la napoletanissima “genovese” che non si è mai capito perché si chiami così, visto che in Liguria questo piatto non esiste. Si tratta di un ragù bianco di muscolo e guanciola di vitello (quasi sempre quello brado che Carlo acquista direttamente da allevatori dell’alto casertano che avendo grandi spazi possono permettersi di far pascolare gli animali) cotto a lungo con la Cipolla Ramata di Montoro, un’eccellenza dell’entroterra campano, piccola produzione di grande qualità (la mitica Agnese Gambini ne parlava la primavera scorsa in un bel post su IFood).
Sartù per i suoi piatti di pasta secca usa pasta IGP di Gragnano; siamo ancora ai grani moderni convenzionali, ma chissà che a breve Carlo non sia incuriosito dai grani antichi coltivati naturalmente (io la pulce nell’orecchio gliela metto).
Come forse avete già letto qui sul blog sono un’appassionata della minestra maritata, che per me è un po’ l’emblema del 26 dicembre, il giorno dopo il Natale. Questa minestra (ne trovate una pallidissima imitazione anche in una vecchia ricetta qui sul blog) l’abbiamo importata dalla dominazione spagnola, e pare sia uno dei piatti più elaborati della cucina napoletana.
La versione di Sartù mi è piaciuta moltissimo: il brodo era denso e saporito nonostante fosse leggermente salato (in Alto Adige dicevano che succede quando il cuoco è innamorato :-D).
Dentro c’erano broccoli a foglia, broccoletti mondati, cicoria, scarola, borragine, cappuccia (il cavolo cappuccio), verza, e torzella (che pare si trovi solo nell’Acerrano e nel Nolano). Se siete stupiti dalla varietà di verdure, sappiate che molto prima di essere appellati “mangiapasta” i napoletani venivano chiamati “mangiafoglie”, perché attorno alla città, e particolarmente sulla collina del Vomero, i campi erano fertilissimi e pieni di ogni ben di dio.
Nel ruolo della carne c’erano invece il mascariello (il guanciale), le cotiche, l’orecchio e le tracchie (spuntature) di maiale nero, la ‘nnoglia (una salsiccia piccante fatta con gli scarti della lavorazione del maiale, interiora etc), la gallina paesana, la corazza (il lombo) di manzo al pascolo e le pezzentelle (salsicce di polmone). Inutile tentare di descrivervi il sapore del brodo che ne risultava.
Il sartù saprete già che è un piatto storico dell’aristocrazia napoletana, e in seguito il piatto domenicale per eccellenza delle famiglie napoletane. Pare che l’etimologia di questo nome derivi dall’espressione francese “sour tout”, tutto sopra, perché in effetti sopra c’era un po’ di tutto. Questa ricetta fu il modo per i Monzù (storpiatura di “monsieur”, i cuochi francesi a stipendio nelle buone famiglie partenopee) di far mangiare ai napoletani il riso, che arrivava in grande quantità nei porti, e che fino ad allora era considerato cibo per i malati (e infatti era soprannominato lo “sciacquapanza” :-D).
La monoporzione che vedete è in versione “rossa”, al ragù, ispirata a quella del Raffaele Bracale (vedi foto sopra) di Comm se magna a Natale. Esiste anche la versione bianca, che personalmente preferisco, e che a quanto scrive il Cavalcanti sarebbe quella originale. La farcia consisteva in ragù di carne, funghi porcini, animelle miste di maiale e galline paesane, polpettine di manzo, provola di Agerola (pascolo!), e… piselli surgelati. Piccola pecca, ma comprensibile deroga alla stagionalità, pur di rispettare la ricetta originale.
La minizac, che ormai è una piccola natural-gourmet, ha scelto dal menù (mi sorprende sempre, la benedetta figliola), il “Baccalà in cassuola”, ispirato a una ricetta storica di Jeanne Caròla Francesconi, una dolce signora mancata una decina d’anni fa e considerata la decana della cucina napoletana (vedete la sua “bibbia” nella collezione dei libri del ristorante, qui sotto, e qui altre notizie).
Questo piatto è realizzato con la parte più alta e morbida del filetto di baccalà, il “mussillo”, fritto prima in olio di girasole e poi preparato alla classica cassuola napoletana di pomodoro. È piaciuto tantissimo sia alla piccola che alla sua spudorata genitrice/assaggiatrice :-D
L’apoteosi però è stato il “maiale nero in due cotture”; un filetto di nero casertano brado ripieno di basilico (ci credete che le piantine del suddetto ancora prosperavano sul balcone di mio fratello?). Il maiale era stato cotto prima sottovuoto, dolcemente, a bassa temperatura, e poi passato in padella in una camicia di pancetta, e servito con un “crocché scomposto” (pane croccante all’esterno e crema di patate all’interno).
Croccante fuori, e morbido, caldo e succoso dentro. Avrei preferito fosse adagiato su una crema di verdure di stagione invece che su quella di peperoni, ma a dire la verità, visto il clima (quasi 20 gradi) che abbiamo avuto a Napoli in quei giorni – pareva settembre, noi giravamo con un pullover leggero e avevamo caldo – sospetto che potessero arrivare dall’orto di casa Sartù anche quelli.
Sui dolci, per ovvie ragioni, non ho potuto sorvolare. Sono quasi tutti realizzati dal Maestro Pasticciere Giuseppe Ratto di Frattamaggiore (trovate qualche notizia su di lui qui), che a questo punto sarei curiosa di conoscere. Non conosco la provenienza degli ingredienti che usa, ma mi informerò prima possibile (dovessi tornare a Napoli, che so, a Pasqua!) :-D
La babygourmet ha scelto una versione rivisitata e corretta del Tiramisù (ottimo!!): una libera interpretazione del tiramisù classico con l’inserimento di un croccante di arachidi. Giuro non sono una madre degenere (o meglio autolesionista), il cameriere mi ha assicurato che c’era dentro pochissimo, pochissimo caffè, e poco mascarpone! Abbiamo assaggiato anche una mousse alle Nocciola di Giffoni IGP (acquistate da un’azienda che non le tratta con prodotti di sintesi), che come sapete sono un prodotto di eccellenza dei Monti Picentini.
Insomma tanto di cappello per una realtà nascente nel cuore della Napoli vomerese, che sta combattendo per fare le cose giuste invece di quelle facili; prometto che ci tornerò, e vi racconterò le evoluzioni. Voi se potete un salto fatecelo, e magari venite a raccontarmi le vostre impressioni, ne sarei molto felice.
Sartù
via San Gennaro al Vomero 9b/13 – 80129 Napoli
info@sartunapoli.it
+39 331 8810666
orari di apertura: dal lunedì al sabato dalle 20 alle 23; sabato aperto anche a pranzo dalle 13.00 alle 15.30, domenica solo a pranzo dalle 13.00 alle 15.30
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