“Fra noi ed i nostri vini esistono molte affinità. Come noi, i vini godono il dono della vita — che è un prestito più che un dono, perché ci appartiene per breve tempo — e come noi tutti i vini sono soggetti alle malattie e destinati a morire. La maggior parte dei vini sono vini comuni, così come la maggior parte delle persone sono persone comuni.” André L. Simon, Champagne dalle Origini ad Oggi
Al pasto nudo non poteva che accompagnarsi un vino altrettanto nudo. Nel suo strampalato romanzo Naked Lunch Burroughs, in maniera sconnessa e delirante profilava una società d’uomini e donne emotivamente controllati da una mente — non saprei dire se superiore o inferiore — ma evidentemente diabolica! A parte le derive fantascientifiche e le atmosfere distopiche accentuate nelle oscure trame di Burroughs da abusi di varie sostanze, quel che resta è il senso di manipolazione delle emozioni, e cioè nello specifico a quello che è il nucleo centrale di queste righe a seguire, il focus sul controllo del gusto umano da parte della grande industria alimentare organizzata.
Sempre ragionando di libri, un ottimo pretesto per argomentare attorno a questo tema inarginabile è lo scritto datato 2011 di Alice Feiring intitolato appunto Naked Wine — Letting Grapes do What Comes Naturally tradotto — per la verità in modo frettoloso, dilettantesco sull’uso della terminologia di settore e molto confusionario in non pochi punti — nel 2013 da Slow Food Editore col titolo Vino (al) Naturale. La Feiring è una nota blogger, paladina agguerrita del natural wine negli Stati Uniti.
La miccia teorica e pratica da cui nasce il libro è scintillata dal fatto che l’autrice si mette in gioco in prima persona — sia dal lato umano che da quello professionale in quanto critica — provando lei stessa a sporcarsi le mani e a tentare di fare un vino (al) “naturale” così come quelli che lei ama bere. “Vini nudi” a minor impatto ambientale di cui generalmente è più propensa a scrivere.
La domanda di fondo è: “Perché aggiungere al vino qualcosa di non necessario?” Il presupposto da cui quindi il libro prende le mosse è pretestuoso eppure appassionante, nella scia del New Journalism alla Truman Capote dove reportage e letteratura si fondono e confondono tra l’oggettività del tema trattato e la soggettività dell’autore, che oltre a descrivere il suo punto di vista è coinvolto con tutte le viscere nella storia di cui racconta.
Non sto dicendo certo che Vino (al) Naturale sia un capolavoro di non-fiction novel come lo è invece A Sangue Freddo; eppure se sostituiamo i crimini efferati, la cronaca agghiacciante e la radioscopia del Sogno Americano ricreati magistralmente nel libro di Capote con la grande narrazione del Vino Naturale e del Vino Convenzionale, il Mutismo Sterile del Vino Artificiale o il Canto del Vino Genuino prospettati dalla Feiring, ecco che il paragone è forse già meno forzato.
Certo restiamo sempre nell’ambito della mera propensione soggettiva. Come si fa a stabilire con seria oggettività senza passare da lunatici ciarlatani: che cos’è il canto di un vino, la vibrazione di vita, il ritmo di verità o il sapore autentico in esso contenuti? Come si definiscono di un vino la sua vitalità genuina, la mobilità, la succulenza, la naturalezza senza impantanarsi mani e piedi in un vicolo cieco di contraddizioni, d’inclinazioni soggettive, di fumose astruserie e forzature terminologiche?
Ad ogni modo, per dar conto di cosa si parla quando si parla di ridurre l’interventismo enologico in cantina fieramente sbandierato dall’industria – gomma arabica, tannini liquidi, micro-ossigenazione, filtrazione tangenziale o osmosi inversa, massicce dosi di solfiti aggiunti… -, a favore di un minore impatto farmacologico e un maggior rispecchiamento dell’annata, della mano dell’uomo e del territorio nel vino prodotto artigianalmente, questo è quanto ci ricorda la Fiering: “l’uso di lieviti aromatici, l’eccesso di solfiti, il massiccio ricorso al rovere nuovo e tutto ciò che modifica la natura essenziale del vino sono parimenti in stridente contrasto con un processo naturale.”
L’occasione di poter fare un vino da sola viene quindi offerta alla Fiering da un mitico produttore dell’Oregon, David Lett della Eyrie Vineyard, un pioniere ecologista dell’aridocoltura e della viticoltura sostenibile senza uso d’insetticidi e pesticidi, che a metà anni settanta aveva impiantato il primo Pinot Noir nella Willamette Valley e il primo Pinot Gris di tutti gli Stati Uniti d’America.
La Feiring, con piglio tra lo smaliziato e l’ansimante, una tipica attitudine newyorkese da ebrea blasè di Manhattan e un bel po’ di dose d’autoironia ansiogena alla Woody Allen, si domanda fin da subito se il gravoso compito che si propone, di produrre cioè il vino sulla base dei suoi principi etici, non possa rivelarsi infine un’impresa troppo enorme, eccessiva, fuori dalla propria portata.
“Ero convinta che produrre vino senza additivi o bizzarrie enologiche industriali fosse assolutamente un diritto acquisito dell’uva. Ma se… in caso di… Avevo basato la mia reputazione di critica su un metodo di vinificazione più difficile di quanto avessi creduto?” Domanda molto centrata che mi ha subito riportato con la mente ad alcune vibranti pagine sulla “lingua che assaggia e la lingua che parla” dell’amico e collega Giampaolo Gravina intitolate “Che gusto c’è?” riportate in una valida pubblicazione del 2013: Il Vino “Naturale” (Servabo). Il punto nodale su cui Gravina focalizza la sua meditazione critica mi pare volgere nella medesima direzione della Feiring relativamente ai: “vini assediati da un’enologia interventista e riconducibili a un modello gustativo preventivamente epurato da ogni tensione e dissonanza: vini facili e rassicuranti, proni alle logiche del marketing e sempre più uguali tra loro.”
Tra dubbi incalzanti, cambi di programma ed altre variabili umane “il vino ha bisogno degli esseri umani. Ciò che si discute è fino a che punto debba spingersi l’intervento dell’uomo“, alla fine la Feiring si ritrova suo malgrado a fare il vino non più nel rustico Oregon ma nella tecnocratica e ben poco amata California, patria dei vini pompati del New World, areale ad alta concentrazione di zuccheri da uve stramature, i vini copiosamente affinati in legni ultranuovi (se non peggio con chips); il califorian wine, sinonimo molto spesso di vino vitaminizzato a botte di enzimi e altri temibili additivi chimici farmacologicamente dosati.
Quella stessa California (cfr. Napa e Sonoma Valley), che comunque l’autrice, dopo questo suo viaggio di formazione enoica, quasi conciliata con se stessa si troverà infine a ridimensionare e svecchiare dal clichè di patria dei vini troppo costosi, succhi d’uva artefatti e fin troppo omologati. Proprio nell’ultimo capitolo del libro infatti, enunciando questa massima sbrigativa ma efficace: “nel mondo del vino naturale ci sono produttori bravi e meno bravi, esattamente come nel mondo del vino convenzionale“, la Feiring riporterà vari esempi di vignaioli virtuosi e agricoltori appassionati come Cantz, un vigneron kosher sulle Santa Cruz Mountains con vigne biologiche condotte in aridocoltura; i Coturri pionieri del biologico a Glen Ellen; Hank Beckmeyer e la moglie Caro di La Clarine Farm in Sierra Foothills; Arnot-Roberts a Healdsburg; Jared & Tracey Brandt di Donkey & Goat Winery a Berkeley; Gideon Bienstock di Clos Saron sempre in Sierra Nevada.
La vita si sa, è un bazar straripante di compromessi, equivoci, imprevisti e così la nostra paladina del naturale si è ritrovata a fare un Sagrantino in California, in faticoso accordo ai suoi ferrei principi ecologici, personalmente gestibili fino ad un certo punto, ospite di una grande azienda a conduzione semi-industriale, nei confronti della quale prova un sentimento contrastante di gratitudine ed ostilità allo stesso tempo. Ma quel che conta per noi lettori meno passivi, è l’onestà intellettuale di fondo dell’autrice e la sua volontà di confrontarsi e misurarsi criticamente con se stessa, trasmettendoci il desiderio quanto meno di provare anche noi a comprendere più approfonditamente le fatiche materiali, le cause di forza maggiore, le difficoltà spesso insormontabili causate dall’andamento stagionale, i tanti compromessi per portare a compimento la produzione di un vino dalla vigna alla cantina, lasciandoci con queste sue pagine un’eclatante tesimonianza di critica enologica militante, rara avis nella letteratura di settore.
Questa bene o male la cornice del libro, dentro cui i capitoli di maggior sostanza ed interesse per le nostre ruminazioni sul naturale, restano comunque quelli dedicati ai viaggi tra le vigne d’Europa (essenzialmente Sud della Francia e Spagna, Galizia e Priorat) alla ricerca del vino più puro, nudo, reale e liscio che ci sia!
“Quanto più circola il falso, tanto più c’è bisogno di vero.” Baldo Cappellano
Una volta adeguatamente raccolte le idee, cosa riportiamo a casa di più essenziale dalla lettura di questo libro della Feiring? Sicuramente la constatazione, forse più uno stato d’animo quasi, un sentimento estetico, circa l’ardua definizione di cosa sia o non sia naturale, autentico, fasullo, sincero, costruito, musicale, disarmonico o stonato.
Come avviene nella letteratura, ad esempio, per cui gli scrittori si differenziano tra loro in ragione dello stile, del timbro espressivo, di un particolare tono di voce, anche i produttori di vino — soprattutto quelli non spudoratamente commerciali — al netto delle scorciatoie mercantili prospettate dagl’additivi enzimatici, si sbattono anche loro, si cercano e tentano di esprimersi, intonano una propria voce distinta che è poi tutt’uno con gl’alti e i bassi dell’annata, l’impronta del suolo, il respiro della vigna da cui spremono l’uva la quale pian piano si trasforma in mosto che faticosamente fermenta per diventare vino.
Segue qualche altro punto che ho ritenuto decisivo sottoporre alla vostra attenzione:
· La nascita del movimento naturale in Francia incoraggiata da personaggi carismatici quali lo scienziato contadino Jules Chauvet, Jacques Néauport, Jean Follard, Jean Thévenet, Pierre Overnoy, propulsori di un movimento d’azione agricola e di pensiero ambientalista diffuso pian piano in Francia, Europa e poi in tutto il resto del mondo scaturito comunque da un principio tanto semplice quanto pratico di filosofia quotidiana, è lo stesso Néauport ormai anziano che ne da conferma dal vivo alla Feiring: “Il movimento per il vin naturel senza l’uso di solfiti è nato per permettere di bere di più senza avere i postumi delle sbornie.”
· Senz’altro una definizione molto pragmatica ma in linea generale assai legittima di sostenibilità: “Sostenibile significa sostenibile per gli agricoltori… cioè l’agricoltore deve guadagnarsi da vivere col suo lavoro.”
· A parte il baillame sul bio, il biodinamico, il naturale, la permacultura ispirata a Masanobu Fukuoka di cui abbiamo già cercato di dare conto in precedenti contributi, la linea sottilissima che discrimina chi lavora seriamente senza aggiungere e senza togliere niente all’uva o durante i vari processi di lavorazione in cantina, è l’utilizzo basso medio alto o nessuno di solforosa. Anche qui però, sempre con il beneficio d’inventario di subdole manipolazioni tecnologiche a sostituzione dei solfiti o dei lieviti aggiunti quali ad esempio l’utilizzo dell’enzima lisozima che tanti templari “nudi e puri” della macerazione carbonica, aggiungono poi però comunque a sostituzione dei solfiti per paura di compromettere l’integrità del vino.
· A coronamento del punto precedente, Marcelle Lapierre, uno dei padri fondatori del movimento naturale, produttore mitico a Morgon nel Beaujolais, scomparso nel 2010, ci lascia un aforisma lapidario, utile a ricordarci quanto sia pericoloso seguire dei dogmi di qualsiasi specie e farsi seguaci accecati di estremizzazioni ottuse o rigide questioni di principio in enologia come in tutti gli altri aspetti della vita, senza prima riflettere con la propria testa: “I vini naturali dovrebbero esprimere il terroir e l’annata; ma un vino solamente senza solfiti che però non esprime nulla, non è naturale.”
Altri riferimenti bibliografici:
Oltre ai link disseminati lungo il testo, ricordo che Alice Feiring ha appena pubblicato un libro sui vini Georgiani che mi riprometto di tradurre: For the Love of Wine: My Odyssey Through the World’s Most Ancient Wine Culture e aggiungo qualche altra integrazione bibliografica per permettere di approfondire meglio l’argomento che può altrimenti risultare a qualche lettore alquanto inesauribile o forse un po’ sfuggente:
Mario Fregoni, Viticoltura di Qualità. Trattato dell’Eccellenza da Terroir (Tecniche Nuove Editore)
Étienne Davodeau, Gli Ignoranti – Vino e Libri: Diario di una Reciproca Educazione (Porthos Edizioni)
Samuel Cogliati, I Vini Naturali che cosa sono (Possibilia Editore)
Sandro Sangiorgi, L’Invenzione della Gioia. Educarsi al Vino. Sogno, Civiltà, Linguaggio (Porthos Edizioni)
Giovanni Bietti, Vini Naturali d’Italia 2.0 Nuovo Manuale del Bere Sano tra Moda e Verità (Edizioni Estemporanee)
Ciao Gaetano, il tuo limpido articolo può essere scritto mutando il termine vino con il termine farina, mantenendo il medesimo significato.
Come ti ho già detto, le industrie delle farine si stanno spostando dal settore alimentare a industrie chimiche, con farine addizionate di mille diavolerie, con il consumatore finale ovviamente all’oscuro di cosa sta mangiando.
Purtroppo una mia critica si risolge anche ai recensori di guide, articoli e blog che non hanno alcuna conoscenza di questi aspetti, e non ne tengono conto in fase di valutazione dei locali.
Saluti.
Caro Carlo hai perfettamente ragione. Queste riflessioni che facciamo spesso anche a voce andrebbero sempre più estese a tanti ambiti della produzione agroalimentare non solo enologica per portare maggior consapevolezza nel consumatore finale. L’intento etico che si propone Il Pasto Nudo è proprio quello di stimolare quanti più lettori ad un consumo critico. Maggior attenzione e coscienza dei consumatori alza di conseguenza l’asticella della responsabilità e onestà di chi produce, ovvio che poi le mele marce se non vengono separate per tempo dal cesto fanno marcire anche quelle sane. T’abbraccio
Con questo link ti rimando alla rubrica su il pasto nudo dedicata alle “grane del grano”