Nei due giorni passati tra salami, culatelli e prosciutti, mi sono ancora più convinta di come sia necessario sdoganare l’argomento salumi, al di là di qualunquismi vari. Partiamo col dire che i salumi nascono da un’esigenza sentita come impellente che oggi non abbiamo più, quella di conservare le carni senza poterle surgelare.
Sembra banale, ma vale la pena ripeterlo: fare i salumi è un’arte antica, ma per conservare ciò che di buono c’è nella tradizione c’è bisogno di una grande competenza pratica e manuale, una conoscenza spesso dettata dalla sperimentazione. Una delle discriminanti più importanti è la selezione della razza che meglio di altre e in maniera più naturale può fornire la carne migliore.
A Polesine Parmense si è respirato tutto questo e anche molto altro.
La razza
C’è una grande differenza in termini di qualità del risultato, tra le razze del suino pesante italiano (Large white, Landrace e Duroc/a>) ammesse anche nel disciplinare per produrre il prosciutto di Parma, allevate al chiuso e nutrite con mangimi insilati e scarti di lavorazione della filiera lattiero casearia e le razze di maiale come il Nero Casertano, la Mora Romagnola, il Nero dei Nebrodi, il maiale di Cinta Senese, che invece vivono il doppio del tempo (si dice che il maiale deve aver visto due Agosti), allo stato brado o semibrado.
Le razze autoctone sono interessanti dal punto di vista del patrimonio genetico e della qualità delle carni anche nella parte grassa, che accompagna spesso un magro più sodo perché l’animale ha sgambettato, ha vissuto all’aperto, ha mangiato sottobosco, ghiande di quercia, roverella, fragno, o mangimi che l’allevatore ha prodotto da sé.
In questi animali la composizione del grasso fresco comprende una quantità di acido oleico (lo stesso grasso presente nell’olio extravergine d’oliva) mutuato proprio dalle ghiande e dal sottobosco, che lo rende più vicino all’olio che ad un grasso animale. Nel suino pesante italiano invece, per avere la stessa salubrità del grasso, è necessario far stagionare il salume almeno 20 mesi ed aspettarne quindi la naturale evoluzione.
L’allevamento allo stato brado o semibrado non ha senso solo per ragioni etiche, ma ci regala una carne ed un grasso più sani e più “felici” e salutari, che hanno una struttura chimica simile all’olio, quindi senza o con pochi trigliceridi.
Ricapitolando, i salumi provenienti da maiali neri e autoctoni che ingrassano lentamente (si dice che il maiale deve aver visto due Agosti) e mangiano residui di coltivo e sottobosco, ci restituiscono una carne già evoluta almeno nel grasso, più sana e succosa. Le razze invece principalmente utilizzate come Large White, Landrace e Duroc di cui sopra, che vivono circa 9 mesi e arrivano più o meno a 180 kg ci regalano un grasso ha bisogno di stagionare per evolversi e darci un boccone più sano.
La produzione dei salumi quindi, nata dalla necessità di conservare la carne, al giorno d’oggi, unita alla consapevolezza tecnica, aromatica, e alla selezione delle razze, è diventata una risorsa della dispensa che parla di culture, territori, spesso anche di pratiche familiari, attraverso i secoli.
L’arte norcina
Alla selezione della razza che meglio di altre e in maniera più naturale può fornire la carne migliore, l’arte norcina aggiunge oggi una specifica consapevolezza tecnica nella lavorazione delle carni che, preservando la tradizione, la completa con la capacità del “togliere ingredienti”, per un prodotto più sano e più buono. Ancora una volta, come ha detto il celebre Spigaroli: “In un mondo dove tutti aggiungono, togliere è la risposta giusta”.
Un incontro particolarmente interessante è stato quello sui salumi senza additivi. Il professor Ballarini ha aperto il dibattito provocatoriamente, dicendo che quando si lavora con carni sane e in condizioni igieniche ottimali non c’è bisogno di addizionare la preparazione di salnitro.
Un tempo le condizioni igieniche potevano essere solo precarie, perché non esisteva una standardizzazione degli spazi di lavorazione. A questo si aggiunga il fatto che alcuni salumi erano una vera e propria cucina degli avanzi. Queste due condizioni imponevano l’aggiunta di additivi di tipo sintetico, che oggi è ormai possibile evitare. Esiste un ristretto manipolo di norcini e salumieri intelligenti che porta avanti con tenacia, sacrificio e convinzione discorsi che vanno verso il salume senza additivi, cercando un equilibrio tra tecnica (contrapposta alla chimica) e piacevolezza dell’alimento. Il grasso, il sale, l’acidità, ad esempio, sono ottimi conservanti. L’aglio e il peperoncino sono molto utili come disinfettanti.
È interessante soffermarsi un attimo sul concetto di “naturale”: bisogna ad esempio sapere che l’estratto di sedano o di spinaci, che alcuni norcini utilizzano come conservanti, sono molto ricchi di nitrati, sia pur naturali. “Naturale” non sempre vuol dire automaticamente buono e sano; spesso all’uso indiscriminato di questo termine oppongo il fatto che anche la cicuta è naturalissima. La presenza dei microorganismi può essere di due tipi: innocui e nocivi (questi ultimi quindi pericolosi per l’uomo). Quante sono le persone disposte a mangiare un salume con un’alta percentuale di grasso o di sale, o acidificato?
È importante comprendere innanzitutto che come in tanti altri casi, l’errore sta principalmente nel *modo*. In questo caso il modo di mangiare i salumi, il fatto di volere la fetta magra, rossa, che, vi sorprenderà, vuol dire carne poco stagionata, poco evoluta, quindi praticamente cruda.
Gli assaggi
Di fette interessanti ne ho assaggiate diverse, come il Ciauscolo di Re Norcino, nella versione Campagnolo, che rispetto a quanto previsto nel disciplinare è completamente privo di additivi, e risulta più delicato ma allo stesso tempo sembra avere più carattere. La fetta evidenzia una carne macinata finemente e una grandissima quantità di grasso, il 60%, che rende questo salume morbido e addirittura rosa chiaro, vengono poi aggiunti sale di Cervia, pepe e aglio di Voghiera DOP.
Avvicinando la fetta al naso, apre esuberante con sentori intensi di aglio, che invece in bocca diventano delicati, rivelando una certa complessità e sapidità. Questo salume, che aspetta 4 mesi prima di poter essere venduto, deve le sue note olfattive alla lavorazione: l’aglio di Voghiera DOP, rinomato per la sua particolare delicatezza, viene messo a macerare nel vino cotto perché ceda tutto il suo aroma; il vino viene poi filtrato e aggiunto all’impasto.
Ho assaggiato per voi un salume molto chiacchierato, solitamente preso ad esempio come ideale per le diete ipocaloriche; un salume tendenzialmente costoso, mangiato con religiosa moderazione. Sto parlando della bresaola, che normalmente, sono in pochi a saperlo, si produce con carni congelate provenienti dall’altra parte del mondo.
La Bresaola Ferraro invece è una fetta come si deve. Si parte (evviva!) da carni fresche che arrivano anche da altre nazioni vicine, come Francia, Spagna e Irlanda, e anche dalla nostra pregiata fassona piemontese. Niente additivi, niente nitrati, nitriti di sodio e di potassio, solo sale, pepe, spezie, zucchero e vino bianco; i tagli da cui proviene sono la punta d’anca, il girello e il controfiletto. La carne fresca viene salata, conciata e messa in cella controllata per circa 10 giorni, quindi lavata prima di avviarsi all’asciugatura e alla stagionatura, che si protrae per circa 2 mesi.
La fetta al taglio è di un rosa intenso; il profumo è speziato e fresco, di carattere; in bocca l’equilibrio e la delicatezza di sensazioni proteiche evolute mi confermano di essere davanti ad un prodotto eccezionale. Anche l’aspetto del prodotto chiuso ci rivela che c’è sicuramente qualcosa che non abbiamo considerato nella bresaola che si può trovare nella grande distribuzione. Simone Ferraro può essere giustamente fiero di un prodotto così raro da trovare.
Un’altro assaggio di cui sono particolarmente fiera, per vari motivi, è quello dei prodotti di Salumi Giannelli. IL primo motivo del mio orgoglio è che l’azienda/laboratorio si trova in terra di Puglia, e qui potrete anche dire che sono partigiana, ma vedo la fatica che fa questa terra quando cerca di seguire strade difficili. Il secondo motivo è che Raffaele ha una storia bella e pulita.
Nasce in una famiglia di macellai dove respira il clima che gli servirà poi a maturare la sua scelta, ma ci aggiunge una qualifica di Tecnologo Alimentare e un anno di esperienza negli Stati Uniti in allevamento e in Spagna, dove può vedere cose diverse dalla sua realtà di paese. Non si ferma qui: passa da una notissima azienda italiana di salumeria industriale dove si occupa di commerciale, ci aggiunge una piccola esperienza di internazionalizzazione in un altro salumificio, e dall’alto dei suoi scarsi 30 anni, insieme alla sua compagna Stefania, decide che è il momento di cominciare dal suo paese. Torna e combatte con la famiglia, perché ha in testa una cosa sola: fare salumi senza conservanti.
Al di là delle esperienze, delle sfide personali, della tenacia, che già mi dicono che questi due ragazzi, modesti quasi da imbarazzarmi, ma grandi lavoratori, faranno strada perchè se lo meritano già, vediamo come sono poi i loro prodotti. Conservano il salame con il miele, il capocollo lo marinano con il cotto di fichi, il filetto con il vino Nero di Troia: tutto ha una delicatezza e un equilibrio già molto interessanti.
Ma l’assaggio che più mi ha colpito è stato il loro prosciutto: 36 mesi di pazienza per assaggiare un prodotto che è stato custodito nelle botti che hanno visto anche il vino Nero di Troia, per ottenere una fetta con la quale fare silenzio e ascoltare.
Il loro “filetto lardato” è un altro pezzo notevole, elegante, in cui la succosità e la masticabilità ne fanno un boccone su cui indugiare con piacere. Comprano maiali Large white e Duroc alimentati con scarti di produzione vegetale, macchia mediterranea e mangimi prodotti nelle aziende che li allevano. “Sogni nel cassetto?” Raffaele risponde “il maiale nero e la stagionatura in grotta”.
Beh buon lavoro ragazzi! E a tutti noi pastonudisti… buoni, anzi ottimi salumi.
credits: Tutte le foto di questo articolo sono di Ferdinando Besagni.
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