Sentire un formaggio con il suo patrimonio di erbe di alpeggio, fieno, camomilla, emozionarsi per un vino che ricorda il cuoio o la marasca, stupirsi di un olio che sa di pomodoro o di pera o di rucola o di pinolo: incredibili poteri che abbiamo senza saperlo, che abbiamo dimenticato o che non abbiamo mai esplorato provengono dai nostri ricettori sensoriali.
Elisabetta De Blasi
Sono strabilianti strumenti di conoscenza che non sappiamo di avere e che cercherò di farvi conoscere per migliorare la consapevolezza di ciò che mangiamo attraverso un’esperienza intera, da vivere ogni giorno.
Nel percorso evolutivo recente, abbiamo fatto di tutto per tenere le cose sotto controllo, ma la realtà dei fatti è che ne sappiamo sempre meno di noi stessi.
Affidarsi prevalentemente alla vista non è stata una buona mossa. Certo la vista ci aiuta a misurare, per esempio, le distanze. L’occhio raccoglie le informazioni che servono alla mano e al braccio per muoversi esattamente e prendere gli oggetti, o alle gambe per spostarsi senza approssimazioni. Eppure l’uso prevalente della vista ci porta ad utilizzare questo strumento di recepimento delle informazioni, anche per valutare persone, azioni, situazioni opportune o meno, cibi, acquisti etc.
Se ci pensate un attimo il packaging non esisterebbe se valutassimo l’acquisto dei cibi con gli altri sensi, o in ogni caso avrebbe una minore rilevanza. L’analisi sensoriale è, come da definizione, ciò che ci permette di percepire i caratteri organolettici di qualcosa (organolettici sono quei caratteri percepibili appunto con gli organi di senso).
Il nostro corpo ha moltissime risorse percettive, alcune ancestrali, altre specializzate, altre imperfette. La vista, come dicevo, è un senso imperfetto: non possiamo vedere in condizioni ridotte di luce come i gatti, ne’ cose piccolissime a grande distanza come fa l’aquila, senza considerare che spesso sviluppiamo difetti specifici tali da dover essere corretti.
spremuta di arancia
Un tempo, quando eravamo a quattro zampe, altri sensi intervenivano in maniera cruciale nel determinare le nostre azioni, come l’olfatto, che è altamente specializzato. Con il passaggio da frugivori a carnivori, prima raccoglitori di carcasse, poi cacciatori, il nostro cervello si è ampliato grazie ad una maggiore quantità di proteine disponibili. Il vero salto in avanti lo abbiamo fatto con la scoperta del fuoco e la possibilità di cucinare le proteine animali, e abbiamo anche affinato i sistemi di conservazione: tutto questo ha portato ad una più specializzata organizzazione delle risorse comunitarie e una migliore distribuzione dei ruoli.
Ma di questa storia parleremo un’altra volta. Torniamo ai sensi.
Si dice “fiutare” non certo “vedere” il pericolo. La prossemica, ovvero la scienza che studia la distanza tra i soggetti per analizzarne le dinamiche relazionali, ci aiuta a capire quanto il “fiuto” ci guidi nelle relazioni di fiducia. È impossibile dimenticare l’odore di un amante, perchè s’imprime in una zona del cervello che è primordiale, ed è così forte che ogni volta che sentiremo quell’odore (che potrebbe essere anche l’odore del detersivo che usa per lavare le camicie) ci turberà, perchè è portatore di un’emozione.
Magari la forza di quell’emozione non sarà proprio la stessa, sarà solo appena meno definita di quando l’abbiamo vissuta, ma sarà intera. Anche la vista ci procura turbamenti: rivedere la persona amata attiva la chimica, anche perchè evoca sensazioni percepite da altri sensi (tatto, gusto, olfatto) in uno sforzo immaginativo complesso.

Mangiare è un atto sentimentale ed emotivo ed è così che ne parleremo in questo spazio. Non ci sediamo più a tavola per riempire la pancia, ma per concederci un momento di piacere, una carezza; è un atto consolatorio come nel comfort food, sociale nel convivio, che esprime cura quando cuciniamo per gli altri, che esercita la nostra voglia di avventura nell’esplorazione di nuovi sapori, che stimola la nostra creatività nel combinare gli elementi, che serve a parlare con noi stessi e a motivarci quando decidiamo di curarci a tavola.

Torniamo un attimo alla vista, sopravvalutata, vediamo perchè. La prossemica ci soccorre di nuovo dicendoci che se do’ la mano a qualcuno, lo spazio determinato dalla lunghezza del suo braccio + la lughezza del mio = spazio della cortesia. Qualche centimetro in meno e saremmo già in un altro spazio, più confidenziale. E’ immediatamente intuibile quanto la vista ci ponga in una condizione di sicurezza, uno spazio esente da coinvolgimenti. Ce lo chiede il cervello? Direi di no.
Ce lo chiede piuttosto quell’evoluzione che prima ho volutamente messo tra virgolette, nella sua versione sociale. Abbiamo l’impressione, ma solo quella, di essere più lucidi, meno manipolabili, meno esposti e quindi più capaci di prendere decisioni. In realtà come diceva Hume “la bellezza delle cose è nella mente di chi le osserva”, una frase che indica quanto la vista sia spesso capace di farci percepire ciò che vogliamo e non ciò che vediamo realmente.
La misura della bellezza è l’armonia, questo ce lo ha insegnato Quark, in una simpatica puntata sulla valutazione della bellezza del viso: una simmetria degli elementi è universalmente riconosciuta come “bellezza”. Altra cosa è quell’armonia che ciascuno riconosce a chi ama e che non è oggettiva, ma soggettiva, proprio perchè la valutazione visiva ed emotiva ci fanno vedere cose che vogliamo vedere (e che gli altri non vedendo giustificano con una frase chiave “è innamorata…” ovvero non è pienamente in grado di valutare).
peperoncini piccanti
Anche nel cibo si creano aspettative, come in un incontro amoroso, ce ne immaginiamo il gusto, perchè il nostro cervello conserva memoria delle sensazioni. Memorie di gusto, di aroma e tattili che servono per recuperare l’esperienza e impedirci di mangiare ciò che non ci piace o non ci fa stare bene. Il cervello non ci chiede di essere razionali, ma è un grande immagazzinatore di informazioni e ne utilizzerebbe volentieri altre per orientarsi se decidessimo di essere più ‘dentro’ le cose. La consapevolezza del cibo parte proprio da qui, dal fornire al nostro centro di elaborazione dati i risultati di percezioni multiple, che ci entusiasmino, che ci emozionino, prima ancora di arrivare alla bocca, in un rapporto con il cibo che unisca passione e conoscenza. Proprio un rapporto d’amore a tutto tondo.
Tutti possono “sentire” agevolmente? E cosa si dovrebbe sentire?
Sì, tutti possono sentire agevolmente. La mucosa olfattiva collocata nel naso e incaricata di individuare le molecole odorose, trasformarle in impulsi elettrici e inviarle al cervello (fenomeno che si chiama “trasduzione”) misura ben 10 cm quadrati; ovvero se dovessimo stenderla in maniera lineare ci verrebbe fuori un tovagliolo. Mica poco. Ma non tutti sentono gli odori allo stesso modo. Ci sono anche persone che presentano piccole disabilità specifiche chiamate “anosmie”; per esempio un 3% di fortunati mortali non sente la molecola dell’acido isovalerianico corrispondente alla puzza di sudore (beati loro!).
Per questo motivo, per diventare analista sensoriale (una sorta di tecnico della degustazione) di un determinato alimento, c’è sempre un momento in cui il formando viene testato nella sue capacità, in particolare, di percepire i difetti e le intensità degli stessi. Cosa si sente? Se parliamo sempre di olfatto, ciò che si percepisce sono letteralmente delle molecole volatili che entrano nel naso, ma non solo nel naso. Un altro punto in cui percepiamo molecole volatili è tra bocca e naso, per via retronasale. Sono proprio questi ricettori, molto fini, che ci permettono di godere dell’esperienza aromatica del cibo in tutte le sue sfaccettature. Quindi con il naso sentiamo l’odore/profumo e con i ricettori retrolfattivi (retronasali) l’aroma, che non è affatto una brutta parola.
E quindi il gusto di pomodoro… non esiste!
Pare che l’Australopiteco non percepisse il salato, non gli serviva, e in ogni caso era più importante il dolce per sopravvivere. L’Homo Sapiens pare abbia scoperto il salato per caso, per colpa del mare, e ha capìto che era un esaltatore dei sapori, uno scatto avanti nell’evoluzione del gusto: non si mangiava per necessità di sali, ma perchè era un moltiplicatore di stimoli. In ogni caso il gusto è un senso chimico, ovvero quando sentiamo il dolce vuol dire che uno zucchero è entrato in bocca, ha creato una soluzione con la saliva, che poi è stata assunta dalle papille gustative in grado di riconoscere quello stimolo, poi inviato al cervello e quindi verbalizzato.
Lo stesso vale per il salato, l’acido, l’amaro, e l’umami (una sensazione sapida non salata, uguale ad una diluizione di glutammato monosodico). Il piccante invece è una sensazione trigeminale, ovvero assomiglia più ad un dolore, ed infatti stimola appunto il nervo trigemino. Quindi è sbagliato parlare di “gusto di pomodoro” perchè il pomodoro al massimo potrà essere “acido, mediamente umami, lievemente dolce”; bisognerà parlare invece di aroma di pomodoro.
In bocca si apprezzano anche altre cose. Il tatto del cibo è rilevato da una sensibilità particolare della superficie che riveste la calotta del palato duro (per esempio nel caso dei cristalli di zuccheri del miele), ma anche dalla resistenza al boccone, opposta dai denti (sensazioni cinestetiche/tattili), come nel caso della crosta del pane.
Più naso e più bocca per tutti!
Naso e bocca sono come uno strumento musicale: più si allenano, meglio si suonano. Le sinfonie che siamo capaci di percepire sono davvero incredibili e noi, invece, ci rinunciamo volontariamente nella maggior parte dei casi. Chiaramente ciascuno ha un suo “massimo” ma una persona normale di solito usa molto molto meno delle sue capacità. Conosco solo un caso in cui un individuo sente di più suo malgrado: durante la gravidanza, quando gli odori sono molto più forti.
Franco Cassano, meridionalista, in un suo libro Approssimazioni (vecchia lettura da università) diceva che se i cani avessero avuto uno sviluppo simile a quello umano con tanto di posizione eretta, sarebbero ora degli individui molto sensibili. E se è vero che sentire di più gli odori accorcia le distanze, le donne incinte forse hanno bisogno di “sentire” più intensamente ciò che accade, esercitarsi in 9 mesi e allenarsi alla conoscenza olfattiva, animale, dimenticata, necessaria a quello scambio primitivo, buono e giusto, con il proprio cucciolo.
Per fortuna che ogni tanto la Natura ci ricorda chi siamo veramente.