Domenica scorsa, come vi ho scritto qualche giorno fa, siamo andati (con mio sommo gaudio, visto che c’erano cose nuove da imparare) a visitare la torrefazione Paranà, dove una donna molto speciale ci ha raccontato tutti i segreti del caffè. Pensavo di riuscire a raccontarvi tutto in un solo post, ma mi sono poi resa conto che ci sono troppe cose da riportare, per cui in questo articolo vi parlerò del caffè crudo, rimandando il caffè tostato a data da destinarsi.
Eccovi quindi la prima parte, un veloce volo radente sul complesso panorama della coltivazione del caffè; piano piano spero che riuscirò a trasmettervi tutto lo scibile universale (sempre modesta) sul chicco più famoso del mondo!
Tanto per cominciare, come vi ho già detto la volta scorsa, i chicchi di caffè arrivano in torrefazione ancora crudi. La parte utilizzata per fare il caffè è il seme di una sorta di ciliegia (tra parentesi la pianta fa dei fiori meravigliosi che profumano di gelsomino e limone); queste ciliegie possono essere raccolte con la tecnica dello “stripping”, che consiste nel passare le dita della mano sul ramo raccogliendo tutto, bacche mature, acerbe, marce e foglie.
Questa è la tecnica più economica e veloce (lo stripping può essere addirittura meccanico – in questo caso vengono asportati con un pettine metallico anche rametti), ma dà un caffè più amaro e astringente; con la tecnica del “picking”, invece, le “ciliegie” vengono raccolte manualmente. Siccome i frutti però non maturano tutti insieme quest’ultimo modo di raccogliere le bacche è molto più costoso (bisogna passare tra i filari più volte alla settimana); offre però i migliori risultati qualitativi.
Se sono state raccolte con lo stripping, dopo il raccolto le bacche vengono setacciate (per separare le foglie e i rametti) e lavate con getti d’acqua, e poi si mettono a essiccare al sole in grandi vasche (di solito di cemento); ogni tanto vengono rimescolate in modo che siano tutte ben esposte al sole, e dopo passano anche negli essiccatori.
Una volta che sono completamente disidratate passano in alcune macchine che separano il chicco dalla buccia, dalla polpa e dal pergamino (che è la pellicola che avvolge i semi, cioè i chicchi del caffè); dopo di che bisogna classificarle perché sono di qualità diversa. Questo trattamento si chiama “a secco” e dà il “caffè naturale”.
Se invece sono state raccolte con il metodo del picking si utilizza il trattamento “a umido”: le drupe vengono immerse in vasche piene d’acqua, poi immesse in una macchina che separa i semi, lasciandoci però un po’ di polpa; dopo di che i chicchi rimangono due o tre giorni in acqua in modo che si liberino completamente della polpa residua; poi vengono essiccati al sole (o con le essiccatrici) e infine viene asportato il pergamino con delle macchine decorticatrici.
Quest’ultimo metodo dà origine al cosiddetto “caffè lavato”, di qualità decisamente migliore, perché il pergamino viene rimosso più efficacemente, i chicchi sono più omogenei e le caratteristiche aromatiche sono più intense (ecco il sito molto interessante dal quale ho preso queste informazioni).
Normalmente il trattamento a secco viene utilizzato soprattutto in Brasile, mentre in Colombia, Etiopia, Kenia e nei paesi dell’America centrale si utilizza il trattamento a umido. Esistono moltissime specie di caffè, ognuna con le sue caratteristiche peculiari; quelle più usate sono in genere quattro: la Coffea Arabica, la Coffea Robusta (o Canephora), la Coffea Liberica e la Coffea Excelsa. Ognuna di queste specie ha poi delle sotto-varietà (ad esempio l’arabica ha la “moka”, la “tipica”, il “bourbon”, la “maragogype” e così via).
La torrefazione Paranà utilizza per la sua miscela di caffè convenzionale (quindi non biologico) solo le due specie più pregiate, che sono l’Arabica e la Robusta. Il chicco di Arabica si riconosce perché è leggermente allungato e ha un solco a forma di S, ed è verde con sfumature azzurre; il chicco di Robusta invece è più tondo, verde pallido con sfumature grigie, e ha il solco dritto.
Una cosa che mi sembra importante sapere per chi beve caffè è che l’Arabica contiene molta meno caffeina della Robusta: in una tazzina di caffè (che di solito ha una capienza di circa 50 millilitri) Arabica ci sono circa 0,07 millilitri di caffeina, mentre nella stessa tazzina di caffè Robusta ce ne sono ben 3 millilitri!
Il problema è che le due varietà hanno caratteristiche molto diverse: l’Arabica è molto aromatica, presenta note floreali e fruttate e ha un gusto potente; cresce ad alta quota (1200-1400 metri – e comunque più sta in alto più è pregiata e meno attaccata dai parassiti) ma dà un caffè poco corposo, piuttosto liquido; la Robusta (che cresce invece ad altitudini che vanno dai 200 ai 600 metri) dona invece al caffè consistenza, cremosità e corpo, ma è meno pregiata, più amara e meno profumata e aromatica. È per questo che in genere Arabica e Robusta vengono miscelate: l’Arabica dà l’aroma, la Robusta la corposità.
I vari tipi di caffè (Arabica e Robusta compresi) sul mercato possono essere di buona o cattiva qualità; esistono grani difettati, imbevuti di pesticidi, diserbanti e concimi di sintesi, stoccati da tempo immemorabile, coltivati calpestando la dignità umana e le leggi naturali.
Non ci crederete, ma l’effetto che un caffè di cattiva qualità fa sulla nostra salute è molto più marcato di quanto si possa pensare. Le miscele di scarsa qualità (utilizzate tra l’altro da tanti distributori automatici) spesso sono portatrici di molecole “killer”, come il Tricloroanisolo (TCA) responsabile dell’odore di tappo (si manifesta con un gusto molto acido e allappante), o la Geosmina, che deriva dalla degradazione di acidi clorogenici (e si manifesta con odore di muffa, di terra bagnata o acido-bruciato), che oltre una certa percentuale possono causare problemi allo stomaco, mal di testa, batticuore e diarrea.
Questi difetti non vengono percepiti facilmente da chi beve il caffè (a meno che non sia un esperto), anche perché si mascherano facilmente con lo zucchero (ecco uno dei motivi per i quali il caffè andrebbe bevuto amaro), e si possono individuare solo con analisi specifiche fatte in laboratorio.
Ci sono poi difetti fisici, vale a dire grani tarlati, immaturi, rotti, malformati, a forma di orecchie o “in pergamino”; questi si vedono con un analisi a campione che viene fatta prelevando con uno strumento appuntito che somiglia a un coltello ricurvo (guardate la foto) una piccola quantità di caffè da ogni sacco, ed esaminando i grani visivamente.
Quello che però interessa a noi è il caffè biologico, e quindi senza traccia di pesticidi; per difendere le piante vengono utilizzati insetti, un particolare tipo di foglie secche che vengono fatte decomporre, aceto, e una pianta di cui non ricordo bene il nome. Paranà realizza questo tipo di caffè utilizzando unicamente Coffea Arabica di alta qualità, coltivata biologicamente e conservata con tutti i crismi.
La prima domanda che ho fatto è stata come fosse possibile ottenere un bel caffè corposo utilizzando solo l’Arabica; Melania con un sorriso mi ha spiegato che è proprio questo il punto cruciale della torrefazione. Variando infatti sapientemente la temperatura del caffè durante la tostatura (cosa possibile solo grazie ad una grande esperienza) è possibile fare in modo che anche l’Arabica da sola restituisca un caffè cremoso e corposo nonostante l’assenza del Robusta.
Ma per questo – e per tutto ciò che riguarda la torrefazione – vi rimando al prossimo post di questa rubrica.
Questo articolo è interessantissimo per me, izn! Grazie! Da tempo cerco informazioni riguardo la qualità del caffè, ma è ben difficile trovarne di chiare ed esaustive (mentre sulla letteratura scientifica riguardante la caffeina ce n’è per ogni!). Non vedo l’ora di leggere il seguito! Ora che so della molecola TCA nel caffè delle macchinette, ho un ‘imputato’ di cui poter digitare il nome per avere (spero) ulteriori approfondimenti: ho proprio idea che sia uno dei responsabili dei miei mal di testa quando ero solita prendere caffè scadente… Mi metto all’opera!
@izn: bel post!
Mentre leggevo, ti immaginavo come “lo scienziato pazzo”, immersa da fogli di carta dove hai scarabocchiato un bel po’ di appunti, pagine web da consultare, alternativamente ai foglietti di carta… “Ma dove ho scritto quella cosa, cavolo! Ma non è possibile, era qui un attimo fa!”. Il risultato: un bel post!
Vorrei aggiungere qualcosa a proposito del caffè di scarsa qualità.
Oltre ai danni derivanti dalla modalità di coltivazione e conservazione del caffè, potevo farci mancare un cenno a come si comporta l’industria? Anche se, arrivati a questo punto, ho la sensazione di sparare sulla croce rossa.
In ogni caso, Ho trovato su un libro, di cui suggerisco la lettura a tutti quelli che stanno coltivando la consapevolezza alimentare (“Mi fido di te”, Massimo Carlotto), in cui, tra le varie nefandezze, ne è raccontata una sul caffè: la Guardia di Finanza ha scoperto che il caffè della grande distribuzione conteneva caffè *in minima parte*, mentre abbondava di cicoria e piselli *marci*, di quelli già destinati alla discarica.
Non serve aggiungere altro.
Molto interessante Izn, non avevo idea del procedimento. Sembra quasi di avere a che fare con il vino, viste le molteplici varietà di chicco e profumazioni/intensità!.
Per quanto mi riguarda evito sempre il caffè della macchinetta, ma proprio perché è imbevibile, a me fa effetto acidità immediato!
Che bello!
Con il tuo post ho integrato le nozioni perse per il ritardo al turno prima!
Assolutamente appasionnante e grazie infinite… :-)
Ho letto in settimana che il caffè, per colpa dell’uomo, rischia di estinguersi perché sta diventando sempre più difficoltoso coltivarlo.
Adoro il caffè, lo adoro più di ogni altra cosa. Non è casuale il nome del mio blog.
Un abbraccio e un ringraziamento per questo splendido post.
Ciao
Kafcia
un vivissimo grazie per questo post che risponde a tanti miei dubbi e molto di più, purtroppo ci stiamo abituando a qualità scadenti e ad un palato che si anestetizza. Ora posso almeno capire di più il perchè.
grazie veramente del tuo lavoro.
barbara
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