Mi è capitato tra le mani il numero scorso di D di Repubblica, e ho trovato un articolo che mi ha fatto sorridere (lo potete leggere in rete qui). In questo articolo si parla di alimentazione e in particolare di un modo di essere vegetariani che si avvicina molto a ciò a cui vorrei arrivare io.
reducetariani
Ho già detto nell’introduzione a questo blog che io non sono vegetariana, pur rispettando profondamente le scelte di chi lo è, perché sento ancora il bisogno di mangiare carne, anche se cerco di farlo in modeste quantità e poco spesso. Credo che, imparando ad ascoltarsi profondamente, si debba seguire ciò che il corpo ci chiede, e quindi evitare i cibi verso i quali proviamo un’istintiva repulsione e invece approfittare di quelli che amiamo (no… non sto parlando della millefoglie della pasticceria del centro o della viennetta del supermercato).
Nel mio caso, per esempio, ho sempre odiato a morte il sapore e persino l’odore della bieta. Qualche tempo fa mi sono ritrovata a leggere su uno dei miei libri di bioterapia nutrizionale che la bieta è assolutamente controindicata per la calcolosi renale, di cui io soffro; questo è ciò che intendo.
Insomma, per tornare all’articolo, parla del fatto che comincia ad emergere una nuova categoria di persone, chiamata i “flexitariani”, che mangiano molta verdura ma anche un po’ di carne, in modo “flessibile”, appunto.
Hanno un blog, e anche il Newsweek ha dedicato loro un articolo molto interessante.

Mi ci sono ritrovata molto perché non amo le regole ferree, e questa elasticità mi si addice un sacco :-). Persino il presidente della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana, Luciana Baroni, sostiene che anche solo riducendo appena di un po’ il consumo di carne si fa tanto sia per se stessi che per l’ambiente e per gli animali.

Vi cito una frase di un ricercatore del Dipartimento di Ingegneria ambientale della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, tratta dall’articolo, che fa rabbrividire:
“Acquistare solo prodotti locali è come risparmiare le emissioni di gas serra prodotte percorrendo in auto 1.600 chilometri in un anno. Essere vegetariani un giorno alla settimana significa risparmiare 1.860 chilometri l’anno.”
Un giorno alla settimana. Ma anche due o tre.
Ce la posso fare.

Aggiornamenti:
28 febbraio 2010:
Un altro “D” di Repubblica (il numero 681 del 13 febbraio), un altro articolo interessante che riguarda quello che per me significa essere flexitariani.
In un’intervista a Jonathan Safran Foer (il trentaduenne autore di “Ogni cosa è illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino”), in occasione della presentazione del suo nuovo libro, “Eating animals” tradotto in Italia con “Se niente importa – perché mangiamo gli animali?”, vengono fuori fatti poco conosciuti, frutto di tre anni di indagini sulla carne che mangiamo.
A parte le cose che già sappiamo, e cioè il fatto che la carne proveniente da animali allevati con il metodo convenzionale è piena di pesticidi, ormoni e sostanze chimiche di ogni genere (per non parlare del “veleno” energetico del quale la carne diventa portatrice perché gli animali soffrono indicibilmente tutta la vita), nell’articolo si parla di una sortita clandestina dello scrittore insieme a una militante animalista in un capannone con decine di migliaia di pulcini di tacchino coperti di sangue e piaghe, disidratati, deformi, ammassati uno sull’altro.
Del fatto che “ogni anno negli Stati Uniti gli animali da allevamento consumano sei volte tanto gli antibiotici ingeriti dagli esseri umani. Ciò produce nuovi germi, sempre più resistenti agli antibiotici. L’allevamento intensivo è un elemento chiave nella creazione di nuove pandemie; in quei capannoni gli scienziati hanno visto per la prima volta virus che combinano materiale genetico umano, di maiali e uccelli. Si superano le famose barriere invisibili che ci hanno sempre protetto”.
Del “rendering”, cioè del riciclo delle carcasse dei cani e dei gatti soppressi che diventano mangime per il bestiame – “cibo per il nostro cibo”.
Del destino dei pulcini maschi, che non possono diventare carne e non possono deporre uova, quindi vengono triturati vivi, o risucchiati da conduttore per finire su piastre elettrificate.
Di polli malati, malatissimi (che hanno combattuto tutta la loro povera vita con danni oculari, infezioni batteriche, emorragie, anemie, malattie respiratorie), che arrivano ai consumatori ignari, e di galline ovaiole che vivono tutta la vita in uno spazio grande come un foglio A4, in gabbie impilate fino al decimo piano.
Di scrofe tenute gravide grazie ad ormoni e inseminazione artificiale per tutta la loro esistenza.
Jonathan Safran Foer è vegetariano dalla nascita del suo primo figlio, ma si limita a spiegare che il minimo che possiamo fare è non mangiare carne che proviene da allevamenti intensivi. Possiamo scegliere di acquistare carne che proviene da piccoli allevatori con una coscienza, che non fanno soffrire inutilmente gli animali e non hanno bisogno di riempirli di medicine; recuperare l’etica del “mangia avendone cura”, oppure lasciar stare gli animali, definitivamente.
Possiamo scegliere. E allora facciamolo.
Approfondimenti sulla dieta flexitariana:
Quattro motivi per mangiare gli organi interni
Flexitarian
Mangiare flexitariano: non una semplice dieta ma uno stile alimentare
Flexitarian Eating
Mangiare ogni parte edibile di un animale