Oggi volevo pubblicarvi una ricetta e invece vi beccate uno dei miei editoriali sul mondo visto attraverso la finestra della cucina. Ho da dire quel tipo di cose che quando le senti non te le puoi tenere dentro e se non le appunti subito da qualche parte tornano per sempre nell’oblio delle lacrime della notte dell’automa di Blade Runner.
Michael Pollan
Una cosa tipo scrittura automatica, non so se avete presente. A volte ho la sensazione di essere una specie di traduttore di sensazioni globali, tanto è vero che mi capita spesso di pensare qualcosa che non scaturisce da ragionamenti precedenti e vederla poi realizzata o raccontata da varie altre persone in giro sulla rete.
Forse sono un divulgatore scientifico di energie circolanti nel mondo. O magari semplicemente registro senza accorgermene ciò che accade attorno a me e all’improvviso i miei neuroni uniscono i puntini e vaticinano.

La lentezza, appunto, la calma. Ho un rapporto contrastante con questi stati d’animo, con questi modi di fare ma soprattutto di essere. Ci sono nata, lenta, in una città che ha fatto di questa caratteristica un modo di vivere e di reagire alle cose; a volte in modo affascinante, altre disastrosamente. Perché il confine tra ponderatezza e lassismo è sottilissimo, e poi molto più spesso di quanto si dovrebbe, l’una viene scambiata con l’altro, in particolar modo dai generalizzatori seriali, razza pericolosissima.

Fino a una certa età mi sembrava di avere il mondo in mano, se avevo la calma di fare quello che dovevo fare. Ogni cosa era possibile, ogni situazione risolvibile, se solo c’era il tempo per smontarla, osservarla, capirla e rimontarla, fino a quando non avevo imparato. Poi all’improvviso qualcuno mi svegliò a suon di schiaffi. Prima roba successa in quella che pensavo essere la mia famiglia, ma si rivelò un groviglio di autolesionismi incomprensibili, e poi – soprattutto – l’improvvisa consapevolezza che se volevo qualcosa me la dovevo procurare da sola, e di conseguenza l’ingresso nel mondo del lavoro estivo, con il quale riuscivo a pagarmi in parte il costosissimo IED.
È stato così che ho conosciuto l’Alto Adige, da dietro i banconi dei bar dove servivo ettolitri di birre ai ragazzi del posto e innumerevoli got de vin blanc ai vecchietti che tornavano dalla chiesa; da dentro la divisa di cameriera ai tavoli con tanto di grembiulino bianco e Birkenstock con calzini, e dalle camere moquettate degli alberghi un po’ tutti uguali (ma quanto sono più belli i Garnì, con i mobili dei nonni della proprietaria e l’uovo fresco della gallina dietro casa a colazione?).

È stato sempre lì che per la prima volta ho dovuto chiudere in un cassetto la mia napoletanità e adottare i ritmi lavorativi convulsi della gente del posto, gente di montagna fredda e frizzante, gente svelta, veloce, efficiente e con poco tempo per riflettere. E come ogni emigrato che si rispetti, sono diventata la prima denigratrice della lentezza della gente del sud, dell’inefficienza che ne derivava. Essì che ho avuto un padre che mi insegnava a fare sempre *almeno* due cose insieme. Quasi un’avvisaglia.
Da lì ho passato tutta la vita a migliorare il mio aspetto lento e ci sono riuscita talmente bene che sono rovinosamente rotolata dall’altro lato dello specchio: “non ho abbastanza tempo per fare tutto ciò che devo fare!!!”, con grande disappunto della mia tiroide. Adesso, nel novembre del 2016, tra una crisi economica e sociale, una scossa di terremoto e un tornado tropicale (l’altro giorno qui c’era scirocco, oggi 9 gradi e tramontana…), mi sto rendendo conto che forse ho un filo esagerato.
E cosa me l’ha fatto capire? Il cibo, ovviamente, o meglio la sua preparazione. È incredibile come tutto sia collegato e quanto sia atavico e ricco di significati il gesto di acquisire un alimento e lavorarlo, trasformandolo in qualcosa che migliora la nostra giornata e quella dei nostri cari, delizia i nostri sensi e trasmette a chi se ne serve l’energia che abbiamo avuto nel farlo (ecco perché non bisognerebbe mai cucinare arrabbiati).

How Cooking Can Change Your Life - Michael Pollan

Ecco. Il miglior modo quindi di reagire alla confusione che abbiamo intorno, oltre alla resilienza e alla consapevolezza, io credo sia *rallentare*. E quale miglior luogo per iniziare se non la cucina di casa nostra? Lo dice anche il mio amato Pollan in Cooked:
“Esiste una persona al mondo a cui piaccia davvero tagliare le cipolle? Be’, magari c’è qualche buddhista che si abbandona completamente all’operazione, finanche alle lacrime, in ossequio al principio che «quando tagli le cipolle, taglia le cipolle e basta». In altre parole, non opporre resistenza, non lamentarti, ma mentre lo fai sii presente: lì, in quel momento.
[…] paradossalmente, persino una cosa noiosa come tagliare le cipolle, appena cessa di essere obbligatoria, diventa più interessante e problematica
[…] Non appena abbiamo delle scelte sul modo in cui passare il nostro tempo, ecco che all’improvviso esso diventa molto meno abbondante, ed *essere* in cucina – tanto in senso letterale, quanto in senso buddhista – diventa molto più difficile. All’improvviso, le scorciatoie sembrano più attraenti, perché nel frattempo si potrebbe fare qualcos’altro: qualcosa di più urgente o semplicemente più piacevole.
[…] Dubitavo seriamente che avrei mai raggiunto lo stadio dell’illuminazione nel momento in cui, quando tagliavo cipolle, stavo *solo* tagliando cipolle […] Forse, però, potrei almeno arrivare al punto di sentirmi completamente a mio agio tra i fornelli, e di mettere bene a fuoco – qualsiasi cosa sia – l’alternativa alla «fine della cucina».

Insomma, se vogliamo ricominciare a stare bene – come quando eravamo bambini e avevamo tutto il tempo del mondo – forse dovremmo riappropriarci del tempo giusto per fare le cose. E come fare, con il lavoro, la casa, gli impegni, la città gli amici le uscite i social le serie su Sky e Netflix le code la burocrazia e tutto il resto appresso?
È necessario un cambio di paradigma, e prima cominciamo a pensarci, meglio è.