La Sardegna e le vacanze in genere mortificano il mio difetto più grande, cioè il fatto di non riuscire mai a rilassarmi veramente; se fosse per me non spegnerei mai la luce, lavorerei 24 ore su 24 (naturalmente parliamo di un lavoro appassionante e voluto), e anche sotto l’ombrellone mi porterei tutto il necessario per navigare.
le pigne in testa
E quasi potrei pure, visto che ho il mio fido iphone; solo che una divinità crudele ha voluto che la spiaggia che frequentiamo di più non preveda la presenza del mio gestore telefonico; così, con grande gioia di zac (e, devo ammettere, sollievo di quella piccola parte sana che ancora alligna superstite in me), tra un tuffo e una passeggiata su queste rade paradisiache mi sono dovuta accontentare della lettura cartacea, che amo sicuramente di più di quella su monitor (nonostante abbia il difetto di essere meno aggiornata), ma alla quale però di solito riesco a dedicarmi poco per mancanza materiale di tempo.
In una di queste sessioni di similriposo mi sono imbattuta in un’intervista a Umberto Eco, argomento censura, sul venerdì di Repubblica del 25 giugno, della quale vi devo assolutamente parlare.
In un contesto che potete immaginare visti i tempi attuali, il nostro Umberto parla del fatto che da sempre nella storia ci sono stati tentativi più o meno riusciti di censurare gli avvenimenti scomodi, e che per farlo ci sono un milione di metodi diversi, e che funzionano più o meno tutti alla grande.
Quello che mi ha stupita è come quasi tutto quello che c’era scritto era perfettamente sovrapponibile anche a ciò che è successo nel campo della cultura del cibo.
Ad esempio, la damnatio memoriae (che consiste nel non far cenno da nessuna parte di un’opera, di un’impresa o di un nome, in modo che quest’ultima venga rimossa dalla coscienza collettiva in modo quasi inavvertito), mi ha ricordato come mi sia sempre chiesta come sia stato possibile che rimedi apparentemente ingenui della cultura popolare come l’infuso di aglio e limone, come lo sciroppo di cipolla o i tanti altri che la bioterapia nutrizionale ha riportato alla luce con tanta fatica, siano stati praticamente asportati dalla nostra memoria, spariti, puff!, sciolti come neve al sole.
O la propaganda, che Eco definisce una forma di censura attiva, che insiste sui temi positivi facendo passare in secondo piano le informazioni considerate negative (tradotto in cibo mi sembra il caso di alcune merendine di cui non faccio il nome… ma con dei baffetti da sparvieroooo – argh, vedete come risaltano fuori gli anni ’80 passati davanti alla televisione).
Un altro tipo di censura, molto efficace, e che noi abbiamo tutti sperimentato attraverso i vari telegiornali inutili che ci sorbiamo quotidianamente (per chi guarda la televisione, perché comincio a conoscere gente che la usa come piano di appoggio), è quella per eccesso di informazioni.
Il fatto di seppellire le notizie fondamentali sotto una bordata di stupidaggini irrilevanti, e trattarle in modo rapido e senza enfasi, in modo che passino inosservate.
Quello che mi sembra sia accaduto con l’acqua. Non so se avete seguito i commenti sulla presentazione della rubrica sull’acqua, ma se gli date un’occhiata vi renderete conto di quanta confusione ci sia sull’argomento; io stessa sto facendo una fatica assurda per capire quelli che, sono certa, saranno concetti semplicissimi. Ma il fatto è che sono talmente aggrovigliati dall’eccesso di cicaleccio, che trovare il bandolo della matassa diventa un’impresa ciclopica.

Dall’articolo mi sembra di capire che Eco veda molto di buon occhio la “mormorazione-blog”, che nella nostra epoca sostituisce e implementa la mormorazione bocca-orecchio di una volta, che era l’unico modo per sfuggire alla censura delle dittature. Le sue parole esatte sono “la legge bavaglio restituirà dignità a una forma elettronica di tam-tam”, e in un altro punto dell’articolo, “Qualcuno ha detto che se ci fosse stata internet, l’Olocausto non sarebbe stato possibile”.

Zac mi ha raccontato di aver letto del microblogging, una forma di pubblicazione nata spontaneamente, con la quale gente che in posti dove avere informazioni di prima mano è complicatissimo, come in Africa o in Iran, può scattare una foto con il cellulare e inviarla immediatamente sulla rete, tramite Twitter, ad esempio, in modo che nessuno al mondo possa bloccare il flusso di informazioni.
Ireneo Funes è il protagonista del racconto che forse amo di più in assoluto (se la gioca con alcuni racconti di Cechov), di Jorge Luis Borges.
Nel pezzo del Venerdì Eco ci ammonisce a non essere come Funes, paralizzato dall’immane mole di ricordi che possiede; io invece mi ci sento *molto* vicina, non per la memoria, per l’ossessione: gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo.
Un giorno riuscirò a trovare il modo di rilassarmi, nonostante la consapevolezza. La consapevolezza che non tutti lavorano per migliorare le cose, per aiutare chi sta peggio, per evolversi. Ma l’atteggiamento egoistico di chi pensa solo al proprio interesse non riuscirò mai a comprenderlo. Alla fine sono un’idiota, come Funes.
Che dire. Era solo per mettervi a parte di un’emozione che ho provato. La sensazione che forse qualcosa potrebbe cambiare. Che magari potremmo essere noi i protagonisti della nostra vita, invece di burattini senza fili (sì, lo so, l’ho già citato Bennato, ma insomma è stato l’eroe della mia infanzia, fino a quando ha retto, almeno); che non dobbiamo lasciarci distrarre dagli osceni o inutili teatrini che ci propinano, che non dobbiamo dimenticare di ricordare.