Sono profondamente affascinata da questi esseri meravigliosi che sono le piante. Purtroppo non sono nata con quella particolare sensibilità che le fa crescere rigogliosamente facendo poco o nulla, anzi se vogliamo fare un discorso epigenetico la mia mamma ha il pollice più verso che abbia mai visto nella mia vita. È il tipo da: “questa pianta la mettiamo in quest’angolino buio che ci sta benissimo”. Con lei si suicidano anche i ficus, quelli con le foglie spesse un centimetro.

In compenso ho molta voglia di imparare, e sebbene le mie curve di apprendimento seguano a lungo un andamento piatto, alla fine si impennano come se ricordassi ciò che ho imparato tutto insieme, e insomma ho molta fiducia che le cose tra me e loro andranno benissimo in futuro.

Ieri mattina ho dovuto alzarmi presto e uscire con zac e la piccola per una questione di lavoro. Eravamo in macchina da venti minuti e ancora non avevo spiccicato una parola (quando dormo poco sono la sorella di Hannibal Lechter) e ricordo distintamente che il mio primo pensiero che non fosse totalmente distruttivo l’ho avuto guardando sulla Cassia il muretto divisorio di cemento armato che divide le due corsie: sotto l’asfalto, ai piedi della divisione spuntavano con un’energia incredibile, dritte dritte, un sacco di pianticelle contente di essere vive, nonostante le macchine che passavano e tutto l’ovvio ostile contorno.

Insomma. Le piante sono la risorsa migliore che abbiamo. In assoluto. Come potete immaginare oltre a nutrirci in modo consapevole qui alla base zac usiamo *unicamente* prodotti per il corpo e per la casa del tutto naturali. I vari bagnoschiuma, saponi, shampoo, creme, profumi e detersivi di ogni tipo, sono fatti con derivati delle piante, olii essenziali e poco altro.

Voglio imparare ad avere a che fare con le mie amate. Voglio imparare ad accudirle e a conoscerle. E questo mese, come vi ho anticipato qualche post fa, abbiamo iniziato a coltivare il fazzoletto (beh — almeno il lenzuolo, và — saranno un duemila metri quadri) di terra che sapete, e sono qui a riportarvi quello che è successo, e a mostrarvi qualche immagine esplicativa.

Per adesso poche piante e tanti semi. Siamo a Gennaio, e anzi Gian Carlo, proprio perché è uno sperimentatore, sta iniziando tutto molto prima di quanto si faccia di solito; in genere si semina in marzo, ai primi caldi; così facendo le piantine cominciano a produrre qualcosa dopo una quarantina di giorni. Seminando in anticipo le radici sviluppano meglio e sapranno poi come affrontare i caldi dell’estate.

Purtroppo i finocchi, che Giancarlo aveva piantato a novembre, sono stati decimati dalle gelate (ricordate la neve di qualche settimana fa?); le piantine erano state acquistate in un vivaio e quindi erano state forzate in serra con concimi chimici; erano molto più deboli di quelle che semineremo noi. Qualche esemplare eroico si è salvato e sta crescendo seguendo la via naturale.

Il cavolo cappuccio viola, anche lui seminato a novembre, era già alto una ventina di centimetri :-) Le bietole e il prezzemolo invece non c’è stato neanche bisogno di seminarli perché sono piante perenni e stavano già venendo su da sole. Vi racconto quello che abbiamo fatto, nel modo più schematico possibile, che serve anche a noi per tenere un diario di tutto, e spero possa essere utile a chi non può essere con noi ma ha bisogno di una linea da seguire.

• Abbiamo seminato i piselli in uno spazio di terra di circa cinque metri per sei, in buchi fatti con un bastone inventato da Gian Carlo, a circa quindici centimetri l’uno dall’altro. Nella foto non si vede tanto bene, ma il bastone ha un chiodo piantato a qualche centimetro dalla punta, cosa che serve a capire fino a che profondità bucare; inoltre Giancarlo gli ha montato un tubo sul fianco, in modo che non si debba per forza piegare la schiena per mettere il seme nel buco; basta posizionare l’estremità inferiore del tubo in corrispondenza del buco, infilare il seme nell’estremità superiore e lasciarlo scivolare bel bello nella sua nuova dimora. È pure divertente, e mi diverte anche un sacco pensare a Gian Carlo che l’ha progettato. Questa è quella che io chiamo passione: fare le cose come le farebbe un bambino :-)

• Abbiamo tagliato con un coltellino (e molta delicatezza, lasciando le radici nel terreno) le erbe spontanee che crescevano troppo vicine alle piantine neonate di aglio e cipolla. Le abbiamo poi rimesse sul terreno e, per dare alle cipolline (e agli aglini) un pochino di spazio per crescere, abbiamo spostato leggermente la paglia che le ricopriva, ma non troppo, altrimenti le piantine sarebbero facile preda di tutti i piccoli mangiatori che abitano da quelle parti. Io ho portato anche un bulbo di aglio rosso, che non avevamo; l’abbiamo aperto e piantato ognuno degli spicchi infilandoli in un buchino con la punta all’insù.

• Abbiamo inforcato la paglia, l’abbiamo caricata sulla carriola e l’abbiamo sparsa sulle tenere pargole (le baby piantine), in modo da non fargli prendere freddo, non fargli perdere umidità e anche in modo che le erbe infestanti non avessero spazio per svilupparsi, e gli abitanti nell’orto fossero scoraggiati dal nutrirsi dei nostri appetitosi germogli. Questa operazione si chiama pacciamatura, e potrebbe essere fatta direttamente con gli scarti delle piante stesse, solo che visto che siamo proprio all’inizio non avevamo sufficiente materia prima.

pacciamatura

• Abbiamo fatto spazio alle piantine di fragole, che sono perenni, con la stessa tecnica usata per i baby aglio e le baby cipolle :-)

• Abbiamo seminato (ad un paio di centimetri di profondità) la zucca marina di Chioggia e altre varietà di zucca miste in un altro spazio di terra sempre di circa cinque metri per sei, questa volta però a un metro le une dalle altre, perché le zucche diventano ciccione!

• Abbiamo seminato le zucchine a circa ottanta centimetri l’una dall’altra, in buchini di circa tre o quattro centimetri di profondità, abbiamo ricoperto i semi con le mani e quindi schiacciato leggermente la terra con la punta del piede.

• Abbiamo seminato in semenzaio i cetrioli polacchi, la cicerchia, i peperoncini e la cicoria. I semi di quest’ultima sono microscopici ed è meglio non metterli subito nella terra altrimenti le formiche se li portano giustamente nelle loro casette. La cosa che non sapevo è che bisogna mettere non più di uno o due semini per ogni scomparto, altrimenti si intossicano l’uno con l’altro. Alla fine abbiamo annaffiato la terra molto da lontano, in modo da non scoprire i semini.

semi di cicoria

• Abbiamo imparato a fare il terriccio setacciando la vecchia paglia sbriciolata. Il miglior terriccio da semina è quello originato dalla materia vegetale, perché la terra, di natura minerale, tende a compattarsi di più: la differenza tra terriccio e terra è appunto questa. Nella foto che vedete sotto Gian Carlo sta insegnando ad Annamaria la posizione da tenere per non farsi venire mal di schiena: non bisogna sbilanciarsi in avanti, ma stare ben piantati sul piede che si tiene dietro, e mantenere la schiena sempre più dritta possibile.

Gian Carlo Cappello

• Abbiamo arieggiato la terra praticando buchi a 10-15 centimetri di distanza l’uno dall’altro, con un piccolo forcone. Questa operazione si fa una volta ogni sei mesi (ma va bene anche una volta l’anno) e serve a spingere ossigeno in profondità, dove l’humus ne farà tesoro per ossidare e quindi metabolizzare le sostanze minerali rendendole disponibili alle radici delle piante e quindi a noi attraverso i frutti che mangeremo.

Civiltà dell'Orto

• Abbiamo “seminato” le patate dentro alcune vecchie vasche da bagno recuperate dalle discariche abusive e riempite di terra di campo. Il motivo per cui non le abbiamo messe in terra è che per estrarle a maturazione si fa una gran fatica mentre le vasche basta rovesciarle.

Si dice “semina” ma non lo è: in realtà basta tagliare in due le patate e interrarle di una decina di centimetri a distanza di circa trenta centimetri una dall’altra. Da ogni patata ne nasceranno almeno dieci (ma anche venti). Ne abbiamo in produzione circa dieci varietà diverse (tra cui quelle viola e quelle dolci).

• Abbiamo seminato i cereali; questo mese abbiamo finito la segale e abbiamo iniziato col farro. Le prime piantine sono cresciute nei vasetti e poi le abbiamo trapiantate in pieno campo; in gennaio invece abbiamo “confettato” i semi, li abbiamo messi cioè al centro di palline di terra (per difenderli dalle formiche) e poi abbiamo piantato direttamente le “seed balls”. I semi sono stati posti in terra molto lontani l’uno dall’altro (circa 80 centimetri), sia su filari che tra i filari (il filare è una linea tracciata con un filo che va da una parte all’altra del campo). Abbiamo praticato con delle palette buche sia larghe che profonde 20 centimetri, che riempiremo di terra man mano che la piantina cresce.

Il motivo di questo accorgimento è che il contatto tra la terra e il fusticino fa generare nuove radici grazie alle quali la piantina stessa “accestisce” (se non mi sono spiegata bene guardate la foto della mia lavagna con le varie fasi della crescita; il disegno è un Gian Carlo Cappello originale :-D).

semina

• Sempre con le seed balls di cui sopra le più giovani di noi (espressione di Giancarlo :-)) hanno seminato anche i girasoli, semplicemente appoggiando le palline di terra umida (presa dal fondo del laghetto) sul terreno.

coltivazione naturale

Gian Carlo ci ha spiegato che all’inizio della coltivazione naturale il terreno viene colonizzato da un tipo di lombrico che vive in superficie e si chiama Eisenia Foetida (12 generazioni l’anno); questo tipetto crea le condizioni di superficie (sostanza organica degradata) perché in un secondo momento e più in profondità possa propagarsi nel terreno il Lumbricus terrestris (36 generazioni l’anno).

Quest’ultimo è il nostro più grande aiuto: fora la terra arieggiandola e lasciandola più ricca al suo passaggio, poiché impasta il cunicolo con le mucose prodotte dalla sua digestione per non farlo crollare.

Per concludere in bellezza vi lascio qualche dato incoraggiante: l’anno scorso (tra la primavera 2009 e la primavera 2010) il campo di Gian Carlo ha prodotto 21 quintali di verdura (dei quali 15 sono stati utilizzati e il resto restituiti alla terra); il trenta per cento in più rispetto alla coltivazione chimica, con un consumo di calorie (ad esempio carburanti o concimi di sintesi) e di acqua di nove decimi in meno. In pratica ogni metro quadro di terra produce circa tre chili di verdura per ogni tipo e per ogni stagione.