Rieccomi con la seconda parte del resoconto sulla vita delle api felici, giusto in tempo per la primavera che si è da poco insinuata tra noi e che le vede in piena azione nella splendida apicoltura di Monte Funicolo di Ignazio Pizzoni che avete conosciuto la volta scorsa (io ogni volta che ne vedo una in giro ho un tuffo al cuore. Sarò malata? Le amo).
Nella prima parte del racconto vi ho riportato come è fatta l’arnia e le varie parti di cui è composta; adesso volevo dirvi, per quei pochi che non ne sono a conoscenza (tipo me prima di scrivere questo post) di come si svolge per larghe linee la vita delle api e quali sono le variabili che distinguono un buon miele (e una buona propoli, e un buon polline) da uno qualsiasi. Vi allungo queste informazioni non perché sia convinta che poi vi andrete a comprare un’arnia per mettervela sul terrazzo, ma perché così avrete tutti i dati che vi servono per comprare i vari prodotti delle api in modo consapevole, e fare le domande imbarazzanti che vi raccomando sempre di porre ai produttori :-D
Le famiglie di api si chiamano sciami, e possono raggiungere anche 80.000 individui. Negli “allevamenti” di api ogni sciame vive in un’arnia, e comprende l’ape regina, i fuchi (i maschi, grossi e tozzi, che a fine stagione vengono allontanati dall’alveare) e le api.
La regina nasce da un uovo normale, ma a differenza delle altri api viene nutrita per tutta la vita con la pappa reale; è questo alimento che ne definisce la genetica e la fa diventare leggermente più grande e differente come aspetto, vivere fino a 5 anni, ed essere l’unica fertile (può deporre fino a 3000 uova al giorno). Entro 15 giorni dalla sua nascita la regina fa il volo nuziale, durante il quale viene fecondata (una sola volta nella sua vita) da più fuchi.
Le api “regular” durante la propria vita cambiano spesso lavoro: i primi tre giorni fanno le pulizie, poi per una settimana diventano nutrici (nutrono le larve con miele e polline e producono la pappa reale); la settimana successiva fanno voli di ricognizione, producono cera e costruiscono le cellette esagonali dei favi, secernendo la cera da alcune ghiandole. Fatto questo, per tre giorni fanno le guardiane all’ingresso dell’alveare.
Finalmente, quando compiono tre settimane, le apine diventano bottinatrici: raccolgono acqua e nettare con la lingua aspirante, il polline con dei cestini che hanno sulle zampe posteriori, e infine la propoli, una resina prodotta da alcune piante, che usano per sigillare e disinfettare l’alveare. Potete vedere la propoli allo stato grezzo appiccicata sul legno del telaietto nella foto qui sopra: non vi fate impressionare dall’aspetto; questo preziosissimo dono della natura viene purificato e sciolto in alcool prima di diventare la boccetta che forse qualcuno di voi ha usato per il mal di gola o le “placche” sulle tonsille.
Il nettare raccolto dalla api bottinatrici viene portato all’alveare, dove le api più giovani aggiungono degli enzimi che producono, lo immagazzinano nelle cellette, e poi con le ali creano una corrente d’aria che fa evaporare l’umidità del nettare: è così che nasce il miele, che viene stoccato nel melario e che l’apicoltore prende centrifugando i telaietti.
Una cosa che non avevo mai preso in considerazione è che i mieli monoflora (come ad esempio acacia, castagno, tiglio e così via) ovviamente non possono essere totalmente monoflora, perché non è che puoi costringere le api a visitare solo un certo tipo di fiore, a meno che non hai un campo sconfinato (che sarebbe orrendo) dove c’è un solo tipo di pianta. Si parla quindi di percentuali: se il miele ha almeno il tot% di castagno viene chiamato miele di castagno e così via.
Un’altra informazione che forse può esservi utile è che il miele non pastorizzato cristallizza sempre, anzi proprio la cristallizzazione è la prova che il miele non è stato pastorizzato, quindi non ha perso le sue preziose qualità nutritive. Solo pochissimi tipi di miele che hanno una percentuale più alta di fruttosio, come l’acacia o le melate (di cui vi parlerò in un prossimo articolo), non cristallizzano.
Parlando con Ignazio mi sono convinta quindi che il miglior miele da consumare, a meno che non si abbia bisogno di un particolare aroma per una ricetta o un effetto mirato sulla salute (come ad esempio il miele di eucalipto per la tosse), è proprio il più economico millefiori, che in primis è sempre diverso, a seconda non solo del territorio nel quale si muovono le api ma anche della stagione, e in secundis ha le proprietà di tutti i tipi di fiori, quindi è più completo ed equilibrato.
Parliamo adesso dei vari problemi che possono avere i prodotti delle api. Il primo è rappresentato da un acaro, la varroa destructor, che da trent’anni a questa parte è presente in tutti gli alveari del mondo.
Come vi dicevo poc’anzi una delle prime cose che un’ape fa nella sua vita è costruire le cellette nelle quali la regina depone le uova. Dopo qualche ora dalla deposizione la celletta viene opercolata (cioè sigillata con la cera); in questo lasso di tempo può succedere che riesca a entrarci questo acaro, che si nasconde nel miele posto sul fondo della celletta dalle api nutrici per nutrire le larve. Appena la larva finisce di nutrirsi l’acaro gli si attacca addosso, comincia a succhiarne l’emolinfa e depone le uova. Gli acari che nascono si nutrono a loro volta dell’ape, attaccandosi sotto l’addome (di solito prediligono i fuchi, cioè i maschi) e la indeboliscono, a volte fino a ucciderla (se l’infestazione è importante possono morire anche la metà delle api).
Per debellare questo parassita vengono usati insetticidi chimici, oppure, se l’apicoltore è consapevole, acido ossalico e/o olii essenziali come il timolo o svariati altri metodi di molti tipi. Ovviamente questi prodotti passano nel miele, nel polline, nella propoli e nella cera; questo è uno dei motivi per cui i prodotti delle api non sono tutti sani e tantomeno tutti uguali come si può credere.
La cera come vi dicevo poc’anzi viene secreta dall’addome delle api in forma liquida e si solidifica a contatto con l’aria. Quando viene prodotta è bianca, e acquista un colore più o meno giallo a seconda della presenza di pollini, propoli e miele, cosa che la rende non solo profumata, ma anche antisettica, emolliente, antinfiammatoria e cicatrizzante.
Dopo aver centrifugato i telaietti la cera può essere recuperata e riutilizzata per crearne di nuovi: le api utilizzano tantissima energia per produrla e si cerca sempre di non affaticarle. Se non ne rimane abbastanza i fogli di cera possono essere comprati, in versione biologica e non; ecco, la cera convenzionale può contenere residui di acaricidi (usati per la varroa) e compagnia bella, tutta roba che ovviamente passa poi anche nel miele. Le domande basilari da fare all’apicoltore sono quindi per prima cosa che tipo di prodotti utilizza (acaricidi sintetici o prodotti naturali) per combattere l’acaro della varroa, e poi se compra la cera, ed eventualmente da chi.
Stesso discorso per il polline, che rimane appiccicato alle zampette posteriori delle api bottinatrici (o meglio, delle api quando fanno le bottinatrici). Quando le apine atterrano sul predellino, che è quella griglia gialla che vedete nella foto qui sopra, fissato all’arnia. Il predellino ha come un pettine sul quale le api passano sopra, perdendo parte del polline che cade nel cassetto sotto, e che poi finisce bel bello nel nostro freezer per aiutarci ad esempio ad affrontare il cambio di stagione in atto. Ovviamente c’è una differenza enorme tra polline fresco e secco ma di questo vi ho parlato già nella prima puntata.
Ci sarebbe ancora tanto da dire su questo mondo incredibile, ma mi sa che mi sono dilungata pure troppo (tanto dove credete di andare, alla prima occasione riprendiamo il discorso, ihihih). Un’ultima considerazione però vorrei farla, e riguarda il discorso che molti fanno sullo sfruttamento delle api. Come per tutti gli allevamenti consapevoli (quindi anche piccoli e non industriali) vale sempre la stessa regola, e cioè che alla fine si parla di un mutuo scambio tra animali e uomo: noi (e per noi intendo le persone degne di questo nome) garantiamo agli animali che alleviamo con passione un ambiente più protetto possibile, le cure necessarie e una vita serena. In cambio prendiamo una parte di ciò che producono.
Tutto sta nel non oltrepassare il limite tra collaborazione e sfruttamento, e per quanto possibile rispettare al meglio lo svolgimento naturale della vita degli animali. Non so se alcuni di voi hanno sentito parlare o visto il video del famoso progetto australiano flow hive; si tratta di un’arnia esteticamente molto bella, che nelle intenzioni dei suoi creatori serve a “mungere” il miele dalle api senza disturbarle e senza rischiare di essere punti (potete vederlo qui, sul sito del crowdfunding che ha ricevuto la bellezza di 13 milioni e 271.159 dollari!!). Ebbene, quando l’ho fatta vedere a Ignazio mi ha detto: “ma i telaietti sono di plastica!”.
Come dargli torto? Io nemmeno lo avevo capito che erano fatti di plastica quando ho visto il bellissimo e convincentissimo video che hanno inserito sull’onda della terribile morìa delle api, tutto basato su un’estremamente desiderabile vita hipster, con contorno di giovane mamma incinta, neonato pasciutello che tocca le foglie, surfista con l’arnia nel cortile di casa, collaboratori tatuati barefooters che si riuniscono in verande di legno, schitarrate all’aperto con pellicola in mood anni’70, drone a volo d’uccello sulle arnie immerse nel verde e racconto appassionato con le lacrime agli occhi.
Ecco, prima di farvi incantare dall’innovazione, che potrebbe benissimo essere utile e benvenuta, chiedete a chi lavora con rispetto nel campo che vi interessa, o fatevi spiegare o studiate molto bene come funziona la cosa e solo dopo decidete se l’innovazione è tale o è fumo negli occhi. Adesso che sono più informata non questa “rivoluzione dell’apicoltura” di cui parlano non mi convince. Ad esempio, la plastica dei telaietti, anche se è BPA e tutto il resto free, alla fine spero che sia almeno del tipo riciclabile e non finisca dove finisce tutta la plastica, cioè in filamenti microscopici nell’ambiente e nelle acque e da lì negli stomaci nostri e degli animali, liberi e allevati. E non so dirvi quanto sia difficile per me dirlo, visto che da buon grafico sono un’edonista e quindi assolutamente ipnotizzata dall’immagine. Invochiamo tutti più sostanza, meno apparenza, o almeno 50/50 :-D Perché il ritorno alla natura adesso è pure un business, teniamolo presente.
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