Non fa parte della tradizione casearia di casa nostra. Stando a quando scrive la Kraft sul suo sito, sarebbe stato inventato negli anni 70 dell’800 da un lattaio di Nuova York e chiamato “Philadelphia” perché (cito testualmente dal sito) “in quegli anni i prodotti alimentari provenienti da quella città erano considerati sinonimo di qualità” (come dire un sotterfugio pubblicitario per dare credibilità al prodotto).

Il suo successo in Italia (l’introduzione nel nostro paese è avvenuta intorno al 1970) è dovuto a campagne pubblicitaria attraverso la televisione. La prima fu fatta attraverso il mitico Carosello con il messaggio “freschezza in carta d’argento” (che poi d’argento non è ma di alluminio).

Dal sito leggo anche il procedimento: “Latte e panna vengono miscelati; la miscela viene pastorizzata ad alta temperatura e poi raffreddata. Si aggiungono i fermenti lattici selezionati che inducono l’acidificazione del composto e lo sviluppo di aroma e sapore tipici. La miscela viene riscaldata per farla coagulare e per poter separare il siero grazie all’uso di apposite centrifughe. Alla massa di cagliata ottenuta si aggiungono il sale e gli altri ingredienti, mescolando fino a ottenere il giusto livello di cremosità e consistenza.”

Da questa lettura scopro che il Philadelphia è un formaggio che non è stato ottenuto, come è nella nostra nobile tradizione casearia, facendo coagulare il latte con caglio, ma mediante acidificazione con fermenti. In pratica potrebbe essere considerato alla lontana come un cottage cheese degli americani, o uno dei nostri fiocchi di latte. C’è da considerare comunque che i fermenti presenti nel Philadelphia sono morti perché il prodotto è sottoposto ad alte temperature.

In etichetta si legge che è “formaggio fresco”. Per capire con che tipo di formaggio ho a che fare, vado a leggermi la definizione che uno scienziato del campo, il prof. Giorgio Ottogalli, nel suo trattato “Atlante dei formaggi” (Hoepli 2001) dà del formaggio fresco: “formaggio che non è stagionato e deve essere consumato entro un mese dal confezionamento.” Allora, con questa definizione in testa, vado a leggere la data di scadenza riportata in etichetta e rimango stupito: il formaggio fresco Philadelphia che ho comprato il 7 maggio 2012, scade il 21/7/2012, cioè tra quasi 2 mesi e mezzo. Riprendo il trattato per darmi una spiegazione e la trovo a p. 34 dove si dice che “una sentenza della Corte di Cassazione ha sancito che “fresco non esprime il concetto di recente fabbricazione ma riguarda specificatamente il processo di lavorazione, indicando che esso non comporta maturazione o stagionatura”. L’arcano è svelato, il Philadelphia è “fresco” per la legge in quanto non è stagionato, ma non per il consumatore che lo compra pensando che sia stato confezionato da pochi giorni e non da mesi.
Penso alla mozzarella, il formaggio fresco per eccellenza che scade dopo un paio di settimane dalla produzione, e non posso non chiedermi come fa un formaggio dichiarato fresco, il Philadelphia appunto, a restare mesi sugli scaffali refrigerati del supermercato. La risposta è facile e sta nel procedimento di produzione sopra riportato: il prodotto subisce un trattamento ad alta temperatura (ma i dettagli tecnici di questo trattamento sono segreti, quindi il consumatore non ha diritto di conoscerli).
Mi leggo gli ingredienti in etichetta che nell’ordine sono: latte pastorizzato, crema di latte, sale, addensanti: alginato di sodio e carragenina, fermenti lattici.
Vediamoli da vicino uno per uno.
Latte pastorizzato. Con questa dizione il consumatore non riesce a capire se si tratta di latte intero o di latte scremato.
Crema di latte. È sinonimo di panna, notoriamente costituito da acqua e dalla parte grassa del latte.
Addensanti. Categoria di additivi impiegati per aumentare la viscosità dei prodotto. Ma perché sono aggiunti se, per definizione, un formaggio coagula spontaneamente? La risposta è facile: poiché il latte non è stato coagulato con caglio (e probabilmente anche perché si usa un processo di acidificazione con batteri blando), il Philadelphia sarebbe un prodotto liquido che non potrebbe essere spalmato senza addensanti. Aggiungendo questi, il prodotto assume la consistenza giusta per avere i connotati di un formaggio molle. Dunque la consistenza del Philadelphia non è dovuta ad un processo naturale ma ad un artifizio tecnologico (l’aggiunta di addensanti). I due addensanti usati sono l’alginato di sodio e la carragenina, che hanno come codice europeo rispettivamente E 401 ed E 407. L’alginato è un sale di una sostanza che si estrae dalle alghe rosse, mentre la carragenina si estrae dalle alghe brune.
Passiamo al valore nutrizionale riportato sempre in etichetta. 100 grammi di Philadelphia contengono 6 grammi di proteine (davvero poche per essere un formaggio fresco) e 27 grammi di grassi di cui saturi 19 grammi (tanti se si considera che corrispondono al 95% della GDA (cioè la quantità giornaliera indicativa per una alimentazione sana). I due additivi potrebbero essere presenti in una quantità massima dell’1% (limiti di legge). Quindi gli ingredienti dichiarati costituiscono nel loro insieme all’incirca il 54%. E il rimanente 56%? Probabilmente acqua e/o la parte acquosa del latte (siero).
Il gusto ricorda alla lontana la panna, ma molto alla lontana.
Vale la pena di confrontare la qualità nutrizionale di questo prodotto con quella di un qualsiasi formaggio fresco della nostra tradizione. Se di qualità, 100 grammi contengono circa una ventina di grammi di proteine e altrettanto o poco più di grassi. Non c’è paragone.
Per i formaggi freschi nostrani di qualità c’è l’imbarazzo della scelta, le robiole lombarde e piemontesi, il tomino, il caprino…
L’esame del Philadelphia mi serve per darvi un consiglio per l’acquisto di un formaggio sia esso fresco o stagionato più o meno a lungo. Se di qualità, deve contenere come ingredienti soltanto latte e caglio (+ sale). Se ci sono altri ingredienti, come addensanti e conservanti, non è di qualità.
In tempi di ristrettezze economiche come l’attuale, non si può non guardare al prezzo. Il Philadelphia costa circa 12 euro al chilo, all’incirca quanto vale un altro formaggio fresco nostrano di qualità.