Se ben ricordate, di questo produttore abbiamo già parlato la volta scorsa, a proposito della mantèca, che deriva direttamente da questo caciocavallo, anche se ha una personalità tutta sua, e pure molto decisa e particolare.
Della vacca di razza Podolica e della sua importanza vi ho quindi già raccontato; stavolta vi parlo di come il Caciocavallo viene prodotto, cosa che purtroppo ho solo letto e che invece mi piacerebbe immensamente vedere dal vivo.
Questa vera e propria incarnazione della cultura alimentare, come potete leggere sulla pagina della fondazione Slow food dedicata al Caciocavallo Podolico della Basilicata; è un simbolo della tradizione casearia del mio amato sud, nato — come spesso accade per i formaggi — per conservare il latte in più. Il caciocavallo di Varallo non fa parte del Presidio (Stefano mi ha detto che secondo lui è addirittura superiore; ad esempio, a differenza di quello del Presidio che viene stagionato anche per molto tempo, soprattutto (anche quattro o cinque anni se è bello grosso — arriva fino a 8 chili), questo di Varallo pesa sempre 2 chili e 250 grammi e ha una stagionatura di 18/24 mesi, che basta e avanza: se stagionasse di più prenderebbe un gusto troppo forte.
Questo in particolare (purtroppo la foto non rende perché si è un po’ seccato in fase di trasporto: vacanze estive, consegna etc… lui è molto più bello!) proviene da vacche podoliche, che una volta erano la razza più diffusa in Italia, e oggi purtroppo conta solo circa 25.000 esemplari, sia perché produce poco latte, sia perché la Podolica è una razza particolarmente felice, e non si adatta all’allevamento intensivo (e meno male). Si tratta di animali bradi, che mangiano anche le foglie degli arbusti della macchia mediterranea e sono abituati a vivere di poco, sopportando all’aperto anche inverni assai rigidi.
Su questa pagina che se non sbaglio vi ho linkato anche l’altra volta trovate tutto il procedimento passo-passo per preparare questa meraviglia; dalla mungitura a mano alle 6 del mattino a quando, verso le 9 e mezza viene in parte versato in una grande pentola e portato a una quarantina di gradi (l’altra parte si aggiunge fredda), viene aggiunto il caglio di vitello, coperto e lasciato riposare per un’ora. Verso le 11 la cagliata viene rotta, la parte liquida e quella solida si separano e quella liquida viene rimessa sul fuoco fino a quando arriva a 60 gradi; poi il liquido viene versato sulla cagliata, e (cito) “con un bastone Federico raggruppa con maestria al centro del tino la cagliata che si sta lentamente trasformando in una massa solida e compatta”.
A questo punto il siero rimanente viene riscaldato di nuovo per fare la prima ricotta, e il liquido che ne deriva viene versato sulla pasta di caciocavallo all’interno di un tino, fino a coprirla del tutto. Dopo di che riposa un paio d’ore e si possono cominciare a lavorare i caciocavalli (sembra facile, eh? o.O).
Verso le 14.30 si fa scaldare sul fuoco dell’acqua fino a che arriva a 95 gradi; la pasta di caciocavallo viene affettata sottilmente e poi lavorata con un bastone di legno e l’aiuto di quest’acqua molto calda (che infatti è detta “carda” :-D). Con il bastone viene stesa, compattata, tirata fino a ottenere un cordone di pasta bello lungo, che viene tagliato in porzioni di due chili e 600 grammi ognuna. Solo adesso si possono modellare i caciocavalli con l’aiuto di acqua fredda e calda nella loro forma classica a… caciocavallo.
Quasi finito. Si mettono in salamoia per un paio di giorni, poi vengono legati in coppie, lasciati asciugare e messi a stagionare in grotta per un tempo che come vi dicevo varia a seconda del gusto che si vuole ottenere. Trovate tutte le foto che illustrano il procedimento al link di cui sopra, sono cose molto affascinanti e per me quasi ipnotiche; andrei volentieri a guardarle con lo stesso piglio con il quale mi presenterei al cospetto di un’opera teatrale :-)
Per quanto riguarda la ricetta, stavolta ho voluto provare qualcosa di un po’ diverso dal mio solito, una preparazione un po’ meno semplice ma molto appetitosa. Avevo appena acquistato un coniglio d’erba disossato, e la mia salvia non vedeva l’ora di essere utilizzata, per cui ho spulciato un po’ di ricette in rete e ho trovato questa (ve la linko ma attenzione perché a me impalla il browser), che però prevedeva l’utilizzo di prosciutto cotto. Siccome non amo mescolare le proteine (a parte che il prosciutto cotto ormai non so più cosa sia da tipo dieci anni), e in questo caso già mischiavo carne e formaggio (se non sbaglio questa cosa rallenta molto il metabolismo, cosa che per me va anche bene, ma per la stragrande maggioranza delle persone è deleterio) l’ho semplicemente omesso, e ho sostituito i peperoni con le papaccelle (le amo! Chi ha il libro le conosce già, ve le ricordate le papaccelle mbuttunate?), la fontina con il caciocavallo e non ho aggiunto brodo, perché avevo paura di ritrovarmi con gli involtini bolliti.
Sono veramente ottimi e la patata all’interno ci sta benissimo, perché dà al coniglio ancora più morbidezza; per non dire della salsa di peperoni che è strepitosa (ma un po’ pesante, dato che è mescolata al grasso del coniglio, per cui accompagnate il tutto con *tanta*verdura cruda fresca e croccante, e finite (o iniziate) con un bel po’ di frutta.
Se siete curiosi fate subito un salto da Stefano come al solito, e ditemi che ve ne sembra :-)
p.s.: comunicazione di servizio: a proposito di formaggi, domani sera sono a Trastevere a chiacchierare di latti e yogurt e ricotta e burro e così via; ma mica solo a chiacchierare, eh, anche a fare!! Se siete da quelle parti vi aspetto con pentolini e cose buonine formaggioso-lattose preparate al volo. Adesso vado sul serio, swish!
Ciao! scrivo qui ma per chiederti delle informazioni. Mi era arrivata una mail con delle indicazioni per acquistare il libro o l’ebook ecc. Ma l’ho cancellata per errore, me la potresti invciare nuovamente? Grazie mille