Mi sto semplificando sempre di più. Sto regredendo verso la terra pura e semplice, tra un po’ mi trasformerò in un lombrico e comincerò a scavare gallerie. Quando giro in rete sono sempre meno attratta da piatti complicati (soprattutto quelli che hanno quei nomi articolati, tipo “discesa arruffata di muscolo di barbabietola con aria distaccata di fico fresco di Bronte e fumetto di canapè sciolto al sole del sud”).
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E invece vedo le cose facili e geniali tipo che ne so il sesamo frullato con il sale e mi affretto a posizionarlo in testa ai bookmark come se fosse un’edizione rilegata in oro dell’Artusi redivivo. Magari quando mi annullerò totalmente riuscirò a tornare ai fornelli in versione “soufflè imperiale nun te temo”, ma per adesso sono ipnotizzata dalla semplicità e dai piatti che sanno di recupero familiare, sarà la stagione buia, sarà l’incombere della candelora, mah.
I formaggi fanno parte di tutto questo. Sono una cosa semplice, antica, vera. Oddio, anche nel caso specifico l’uomo è riuscito a creare mostri, eh. Tipo quel salsicciotto lungo e stretto ricoperto di cera che mangiavamo da piccoli, voi lo ricordate? Oppure le fettine scioglievoli che però quando risolidificano fanno quella pellicola plasticosa sopra. E che vogliamo dire di quella roba acidula contenuta in triangolini fatti di fogli di alluminio (suppongo), che per farceli mangiare mia madre doveva farci un buchino e farli spuntare da lì, magari perché non avevano alcun’altra attrattiva :-P
Tutta questa roba di cui vi ho parlato aveva in comune una cosa sola: impossibile sapere da dove venisse la materia prima con la quale erano (e sono! perché esistono ancora, in un mondo parallelo al mio, ma esistono) fatti. Da dove proviene quel latte, se di latte si può ancora parlare? E volendo approfondire ulteriormente, gli animali dai quali proviene, come hanno vissuto?
Probabilmente non lo sanno neanche le persone che li producono. Non capisco come si possa fare a lavorare (e quindi a vivere) con occhi e orecchie chiusi, ma molti lo fanno. Forse senza neanche rendersene conto.

Noi però abbiamo un’alternativa. È facile e ovvia, ed è importante non solo individualmente, ma anche in quanto collettività, perché non siamo nulla se non facciamo rete tra noi. Possiamo acquistare da chi fa le cose per bene. Spesso risparmiando… ormai lo sapete, quando il prezzo di un prodotto è molto, è *troppo* basso, dovete immaginare vicino all’etichetta lo scontrino della farmacia dove prima o poi vi tocca acquistare qualcosa per digerirlo (quando va bene). Improvvisamente il prezzo diventa altissimo.

Dobbiamo solo cambiare abitudine, e ricominciare ad acquistare guardando negli occhi, o spulciando il sito, di chi produce ciò che vogliamo mangiare. Pier Angelo Monzitta è una di queste persone. Stefano è una delle persone che combatte ogni giorno per far conoscere alla gente prodotti e produttori consapevoli (sul suo sito potete acquistare molti dei formaggi di cui parliamo in questa rubrica direttamente dai produttori – lui non fa ricarico, come noi non lo facciamo su Ammuìna), e far aprire gli occhi a tutti su ciò che succede nella realtà, cose che sui media arrivano in differita di anni (quando arrivano); cose che neanche chi dovrebbe proteggere la nostra salute prende in considerazione.
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Anche questa semplice (si fa per dire) ricotta sarda è un piccolo capolavoro di esperienza, saggezza e manualità. Come tutti i formaggi di Monzitta, viene prodotta a partire dal latte di pecore sarde allevate al pascolo. Si parte dal siero del latte (cioè il liquido che rimane dopo la cagliatura dei formaggi), che viene filtrato con un telo e portato a 60-70°C, mescolando continuamente. Poi si sospende “l’agitazione” del siero e si aspetta che arrivi a 82-85°C, sommuovendo delicatamente il siero dall’alto verso il basso per far affiorare la ricotta. Dopo 15-20 minuti si trasferisce la ricotta ottenuta nelle fuscelle, foderate con un telo, e la si lascia spurgare per circa 24 ore, pressando con un peso per far fuoriuscire più siero possibile.
La ricotta viene poi salata a secco e messa ad affumicare per 5 o 6 ore in un affumicatoio che brucia piante aromatiche. Asciuga per due o tre giorni e può essere consumata; la ricotta in questione ha stagionato invece tre mesi. Come vedete nella fotografia l’aspetto è meraviglioso: la pasta è compatta, morbida e sostenuta allo stesso tempo, e il sapore è insospettabilmente intenso. Se scaldate questa meraviglia tende a non sciogliersi, ma mantiene una consistenza che a me piace molto; non è stato facile trovare una ricetta che non la snaturasse, volevo un piatto che la rendesse protagonista.
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Spulciando a lungo in rete finalmente, dopo un numero tendente all’infinito di pasta con le melanzane e la ricotta affumicata grattata sopra ho trovato un trafiletto su un forum nel quale si parlava di una zuppa tipica del Logudoro (proprio la zona dei Monzitta!) che mi ha affascinata, appunto, per la sua saggia semplicità. Vi riporto il testo in questione: “Conoscete per caso Su pane cottu? Era un piatto tipico del logudoro molto povero. Mia madre che era di Osilo lo faceva spesso quando io ero bambino. In pratica si utilizzava il pane di Osilo o Su pane tundu una sorta di pagnotta molto grande cotta nel forno a legna e dato che il pane si faceva una volta alla settimana, al sabato le pagnotte avanzate venivano tagliate a dadoni e buttate nell’acqua bollente a cui si aggiungeva la ricotta mustia a pezzi si mescolava bene in modo da raggiungere la consistenza abbastanza densa e si serviva ben calda.”
Insomma trattasi di pane duro messo in acqua bollente e aromatizzato con ricotta punto. Nessun’altra notizia disponibile (immagino che la mamma dell’autore del post usasse la ricotta mustia non stagionata?), né ne ho trovate in rete, quindi se siete sardi o conoscete questa ricetta per qualche altro motivo mi farà molto piacere avere qualche delucidazione.
Io per non saper né leggere né scrivere, ho aggiunto all’acqua erbe aromatiche tipiche della macchia mediterranea, e poi olio d’oliva e qualche altra piccola cosa. Ma per me il piatto funzionerebbe benissimo anche da solo, proprio così, nudo e crudo. E sardo :-)
Voi andate a sbirciarlo come al solito qui da Stefano, e se lo provate ditemi che ve n’è sembrato. Poi però voglio sapere anche tutte le solite vostre considerazioni, aggiunte, variazioni etc. Che se no che ve le passo a fare le ricetteeee!! :-P