Ogni volta che la mia vita ha incrociato quella dei produttori di formaggio consapevole (uno su tutti Loreto Pacitti, di cui vi ho parlato qui e qui), io, dopo aver ringraziato il cielo per avere un’occasione pazzesca per imparare cose che credo siano basilari per vivere, non sono mica riuscita ad accontentarmi.
tipi di caglio
Non potevo limitarmi a constatare il fatto che sono brave persone, che i loro animali pascolano liberi e baciati dal sole in prati di montagna polifiti (=un sacco di erbe diverse e piene di omega 3) che hanno mai visto pesticidi e fertilizzanti, che per i loro formaggi utilizzano latte appena munto, in tempi brevissimi (e quando dico brevissimi in alcuni casi viaggiamo nell’arco di una manciata di minuti dall’ultimo animale munto), che il suddetto latte non viene pastorizzato perché non perda le sue preziose qualità nutritive (e il gusto), e che ogni singolo formaggio ha una sua personalità precisa e spesso sorprendente.
No, quando mai. Dovevo *per forza* porre delle domande imbarazzanti (perché sono imbarazzanti pure per me che le faccio, cosa credete?) sul *caglio*. Tipo, tanto per girarci attorno con preamboli e merletti: “scusa ma tu con che cosa lo cagli questo latte (meraviglioso)?!”

Ecco. Argomento topico. Freeziamo questa domanda, apriamo una grande parentesi (graffa) e mettetevi comodi. Ché grazie agli allevatori di cui vi dicevo poc’anzi (e ovviamente allo Stefano che ben conoscete) sono in grado di riportarvi il compendio sul caglio, o meglio quello che ho capìto io, grazie anche al dottor Martino Verga, del caglificio Clerici di Cadorago (vicino Como) che molto gentilmente ha avuto la pazienza di rispondere ai miei millemila dubbi sull’argomento.

Esistono quattro tipi di caglio: animale, vegetale, microbico e genetico. Per la precisione, gli unici che si possono definire “cagli” sono quello animale e quello vegetale; gli altri sono detti “coagulanti”, quindi li chiamerò così per non creare ulteriore confusione.
Siccome le cose da sapere sono tante ho pensato di spezzare questo post in due parti; in questa tratterò del caglio animale, nella prossima vi racconterò di quello vegetale e dei coagulanti.
Il caglio animale, utilizzato soprattutto da produttori biologici, si ricava da uno degli stomaci di agnelli (anche nel caso del parmigiano reggiano convenzionale), capretti, vitelli e raramente anche dallo stomaco del maialino (per esempio per il pecorino di Farindola); anticamente se ne ricavava un tipo anche dal pollo, ma non viene più utilizzato. Ogni animale ha nello stomaco proporzioni diverse di enzimi caglianti (come la chimosina o la pepsina), oltre a molti altri enzimi detti caratterizzanti (come la lipasi), che non cagliano ma danno un sapore piuttosto che un altro.
Per fare il caglio liquido in modo artigianale, si procede in questo modo: l’abomàso (che è appunto uno degli stomaci dell’animale), viene gonfiato come un palloncino perché si asciughi; viene poi aperto, steso (senza lavarlo, altrimenti gli enzimi verrebbero persi) su una griglia, cosparso di sale e lasciato seccare. Quando è completamente secco si prepara una piccola quantità di acqua tiepida e poco sale (o meglio di siero, ad esempio quello dello scarto della ricotta), si ricava un quadratino di due centimetri dall’abomàso (circa un grammo), si taglia in pezzetti molto piccoli e lo si lascia in infusione al fresco tutta la notte. Fatto questo, il liquido viene filtrato, e quello che si ottiene è il caglio, che va semplicemente mescolato al latte tiepido. Poi, a seconda della temperatura, del tipo di latte, della lavorazione, dei microrganismi (fermenti lattici, lieviti, muffe) dell’esperienza del casaro (forse la variabile più importante), e così via, si ottiene un tipo di formaggio piuttosto che un altro.
Potete vedere tutto il procedimento su questa pagina estremamente interessante e precisa (vietata agli amici vegetariani).
Invece per farlo industrialmente si utilizzano abomàsi di vitello (e in misura minore di capretto o agnello) congelati. Dopo la congelazione vengono triturati, gli enzimi vengono estratti con acqua e sale, concentrati mediante l’ultrafiltrazione e filtrati con filtri sterilizzanti. Il caglio liquido così ottenuto può anche essere trasformato in polvere saturandolo di sale e raccogliendo la chimosina che precipita, che una volta essiccata costituisce appunto il caglio in polvere.
È possibile trovare caglio industriale sia con conservanti (di solito il benzoato di sodio, o E211, classificato come rosso, cioè nocivo, sul libro del prof sugli additivi) sia senza. Ad esempio la Clerici, alla quale mi sono rivolta per alcune spiegazioni, non usa conservanti per il caglio in pasta e in polvere, ma lo usa per il caglio liquido (a meno che non venga richiesto specificamente quello senza conservante), perché quest’ultimo si inquina facilmente se l’utilizzatore non ha un’igiene ottimale in caseificio.
Mi è stato detto anche che i lattobacilli dei formaggi sviluppano da soli benzoato di sodio in quantità più alte di quello che viene aggiunto sinteticamente dalle aziende (ad esempio il Parmigiano Reggiano ne sviluppa 30 parti per milione mentre il Benzoato sintetico viene aggiunto per 2 o 3 parti per milione). Ma sapete già cosa pensiamo della differenza tra le molecole di sintesi e quelle naturali (sì Dario sono identiche — per la scienza :-D).
Per fare il caglio in pasta invece, gli abomàsi, invece di essere seccati, vengono triturati e messi sotto sale per un tempo piuttosto lungo (uno o due anni), durante il quale stagionano, eventuali stafilococchi o listeria muoiono, e la salmonella non trova ambiente adatto per svilupparsi per via del sale che porta il ph ad un valore di 4,7 — quindi inadatto a tutti i patogeni.
Per il caglio di maiale si utilizza aceto, peperoncino e un po’ di sale al posto dell’acqua o del siero; i cagli di capretto e di agnello si ottengono con un procedimento leggermente diverso: l’abomàso viene schiacciato e appeso a seccare all’aria; dopo due mesi viene aperto e si utilizza la pasta che si trova all’interno, che non è altro che il latte cagliato (come caglia anche quando arriva nel nostro, di stomaco) che dopo questi sessanta giorni è ormai sterile.
Spesso l’abomàso quando viene sospeso per essere essiccato viene anche affumicato, soprattutto per evitare che venga contaminato da mosche o altri insetti, ma alcuni saltano questo passaggio, perché l’affumicatura è comunque un processo poco salutare per via del benzopirene che si forma (anche se solo all’esterno, e la parte utilizzata invece è all’interno). Per inciso, questa cosa del benzopirene è comune a tutte le affumicature (immagino anche alla provola napoletana e ai vari tipi di würstel, sigh).
Per avere un’idea della quantità di caglio necessaria per fare il formaggio basta sapere che lo stomaco di un solo capretto può servire per cagliare circa 500 litri di latte, a seconda della grandezza (dello stomaco, appunto) e della quantità del suo contenuto. Se ho capito bene un grammo di questo tipo di caglio coagula in 40 minuti un latte a 35°C di temperatura. Va da sé che a seconda della temperatura del latte, della quantità di caglio, e dei fermenti presenti spontaneamente o aggiunti, si ottengono tipi di formaggio molto diversi.
Che io sappia (se avete notizie diverse parlate ora o tacete per sempre!) l’Unione Europea per motivi igienici proibisce ai piccoli produttori di prodursi il caglio in azienda utilizzando l’abomàso dei propri animali, a meno che non abbiano un proprio laboratorio dove si possa produrre un caglio provvisto di tracciabilità, ovvero la certificazione che sia privo di sostanze contaminanti.
Purtroppo, tra attrezzature e tutto il resto, questo laboratorio è costosissimo e si contano sulle dita di una mano gli allevatori che possono permetterselo. Così alcuni produttori, come quelli del Pecorino di Filiano, o quelli del Fiore Sardo, che per disciplinare deve essere cagliato con stomaci di agnelli o capretti allevati in Sardegna, mettono gli abomàsi sotto sale e li spediscono ai grandi caglifici (come la Clerici di cui vi parlavo sopra), che sono autorizzati a questo tipo di lavorazione. Il problema è che le aziende lavorano un minimo di 2 quintali di abomasi :-(
Oppure se i produttori di una zona sono tanti e tutti rispettano determinate regole possono consorziarsi e mettere insieme i soldi per comprare un laboratorio che serva tutti.
Per questi motivi la maggior parte dei piccoli produttori finisce per acquistare il caglio animale in barattolo, che spesso contiene conservanti, ma soprattutto immagino sia prodotto utilizzando gli abomasi di animali provenienti da allevamenti intensivi. Questa, secondo me, è una grande contraddizione per chi acquista un formaggio biologico o comunque consapevole, sia per quanto riguarda l’etica, sia per l’aspetto della nostra salute. Come sapete gli animali provenienti da allevamenti intensivi, oltre a fare una vita (e una morte) orribile, mangiano molte cose che non vanno, tra cui alimenti ogm, e sono praticamente sempre imbottiti di ormoni e antibiotici.
A che serve bearsi di poter acquistare (magari direttamente dal produttore) e gustare un formaggio artigianale fatto con il latte crudo di animali felici, lavorato in modo impeccabile e creativo, se poi per il caglio devo rivolgermi per forza agli allevamenti intensivi??? Se fossi un casaro questo per me sarebbe un motivo per disamorarmi di ciò che faccio. So di essere un caso limite (chissà perché me lo dicono continuamente), però io alla coerenza non ce la faccio proprio a rinunciare. Sparatemi! :-)
Il buono di tutta la situazione è che molti produttori non ci stanno a rassegnarsi, e cercano il confronto con le istituzioni per ottenere la libertà di produrre i loro formaggi nel modo che ritengono opportuno (se non lo sanno loro!). Ovviamente — come in tutto — può esserci anche il produttore meno scrupoloso che mette a rischio la salute di chi compra il suo formaggio, ma non per questo è giusto fare di tutt’erba un fascio e condannare all’ergastolo i formaggi artigianali, o no?
Per me la risposta è sempre la stessa: consapevolezza. Andate a trovare i produttori, chiedete come funzionano le cose, fatevi mostrare procedimenti e animali (e il caglio!). Controllate che gli animali siano felici e sani, e che passino molto tempo all’aperto. Guardate negli occhi chi produce il cibo che metterete in tavola, e giudicate da voi se potete fidarvi o no. Questo è uno dei passi indietro di cui parlo sempre, una delle cose belle della vita che ci sono state sfilate negli ultimi cinquant’anni.
Orbene. Chiudo qui lo sproloquio caglio animale (salvo aggiornamenti, che su questo argomento ci si potrebbe scrivere un’enciclopedia) e vi rimando alla prossima puntata. E vado a studiare (e a preparare tutto per stasera, manipoliamo latte e latticini a Trastevere, ricordate?), che è meglio :-)